Una bella scelta la chiusura omaggio a Milos Forman del Fid Marseille 2019, Gli amori di una bionda (1965), capolavoro del regista scomparso da poco e tra i film chiave della Nuova onda cecoslovacca, il romanzo di formazione della giovane protagonista, operaia in una piccola città è insieme ritratto del Paese in quel momento, racconto crudele di giovinezza,gesto d’amore per il femminile ferito da un maschile arrogante. E soprattutto l’affermazione di un cinema politico che con impertinenza tradisce i canoni della rappresentazione lasciando entrare la vita nelle sue immagini.

Nei film scelti quest’anno dal festival francese – stretto tra gli appuntamenti dell’estate, il festival di Locarno più che la Mostra di Venezia – il rapporto con le immagini e il racconto del presente era il punto di partenza, una scommessa non semplice vista la proliferazione delle prime e l’essere in diretta fake o altro del secondo. In che modo dunque coglierne il senso? Come mostrarne le contraddizioni? Si può partire dalla parola, una conversazione che segue un ritmo – e una messinscena – molto «semplici».

Comme sì, comme ça inizia con alcune domande: cosa fare con le poesie del passato, perché fare poesia oggi. Di fronte all’obiettivo di Marie-Claude Treilhou c’è Michel Deguy, poeta, traduttore, saggista che ne suo studio parla, fuma moltissimo, sorride. Regista del gruppo Diagonale, la società di produzione «creata» da Paul Vecchiali – con cui realizza il suo esordio, Simon Barbès ou la vertu – Treilhou costruisce questo incontro sulla parola, e sulla sua sonorità, anche quella poetica più intraducibile di invenzioni e fantasie verbali capace di aprire in chi guarda un «vuoto» da riempire.

Le conversazioni con Deguy si mescolano alle letture di due attrici, alle note di qualche strumento musicale, alle immagini delle pagine dei suoi testi variazioni sulle possibilità della parola come messinscena. È lì che si racchiude il racconto, è lì che prendono forma i conflitti del nostro tempo, la natura, l’ecologia, la società, la politica, ed è lì che sui afferma il cinema senza orpelli descrittivi o interpretazioni imposte nel suo potere di ricreare il mondo.

SIAMO in Italia nel diciannovesimo secolo, una contadina, riceve la visita di un santo misterioso che la spinge al pellegrinaggio. Ma verso dove? Le indicazioni le appaiono oscure, la donna non comprende la lingua del santo. O viceversa? Creatura, dove vai? di Gaia Formenti e Marco Piccarreda (Città giardino, 2018), unico film italiano del concorso, la cui lingua che mescola idiomi sconosciuti all’italiano costruisce un paesaggio della memoria e del mito. Nelle note di regia gli autori scrivono: «Il film nasce dal nostro desiderio di ricreare un’Italia del sud immaginaria nel diciannovesimo secolo in cui sopravvivono le reminiscenze del medioevo …

Un mondo pagano e animista dove santi, streghe, spiriti e dragoni coesistono come in un unico pantheon». E nella campagna assolata e fuori dal tempo questo on the road in un soprannaturale molto terreno si snoda tra i passi incerti della sua protagonista e le parole di un narratore invisibile. Immagine e parola che si distanziano, fuggono le une dalle altre, indipendenti, a contrasto, insieme a costruire un orizzonte aperto di umano e non umano, ambiguità e stupore. Una fiaba nel nostro tempo e fuori dal tempo.

«UN UOMO scava la sua tomba, gli esseri e gli elementi fremono come per trattenerlo». Con queste poche righe Narimane Mari riassume il suo nuovo film – tra i titoli premiati – Holy Days, una storia d’amore, la narrazione del desiderio, l’avventura dei sentimenti nel mondo. Ci sono un uomo, una donna, un asino che va dall’uno all’altra, predilige la ragazza, i suoi libri, il suo sorriso.
L’uomo e la donna si guardano e si amano, ciò che li unisce è la condivisione, canzoni, istanti di felicità, scoperte in quel paesaggio antico di sole e di natura attraversato da una scimmietta che ogni tanto osserva ciò che la circonda. Poi l’uomo esce dal quadro, muore, insieme alla ragazza c’è un’altra donna, conforto, amicizia, il dolore della perdita, il lutto senza bisogno di spiegazioni, di aggiunte.

RISPETTO a altri suoi film, come Le fort des fous (2017) in cui rappresenta in tre atti il significato di colonialismo e postcolonialismo, a partire da Algeri, la città dove è nata – ora vive a Marsiglia – o Loubia Hamra (2013) nel quale si confrontava con la guerra civile in Algeria, Narimane Mari sembra qui spostarsi verso una dimensione più intima che trova nelle immagini la sua dimensione universale. Un po’ come Loubia Hamra (Bloody Beans) in cui il conflitto della storia passava attraverso i giochi di un gruppo di bambini, in questo mondo di adulti appare la vita, nelle sue molte declinazioni, la grande scommessa del cinema.

Non ci sono una sceneggiatura, battute, bastano i gesti, gli sguardi, i movimenti dei corpi in un luogo arcaico, ispirato alla pittura primitiva, che si fa contemporaneo. E alle domande del nostro tempo la regista risponde appunto con le immagini in un sentimento eterno di dolcezza, emozioni, un flusso che trova lì il proprio riflesso. Qualcosa che ci riguarda, l’origine di tutte le storie.