«La bellezza di Vanishing Point sta nell’aver vinto la sfida di come fisicizzare la velocità. Michael Ritchie aveva fatto un film con Robert Redford, Downhill Racer, che toccava l’essenza della velocità. Io volevo alzare la posta in gioco. Oltrepassare i limiti di sicurezza. Perché Kowalski si trova in questa situazione? Era un tipo che viveva alla giornata, senza ambizioni. Non avevo veramente un concetto per il film… Così ho fatto della macchina la sua star. Mi piaceva l’ambiguità, il fatto che ogni spettatore potesse proiettare il suo sistema di valori (sullo schermo). L’unica mia delusione è che lo Studio non mi lasciò scritturare Gene Hackman nella parte del protagonista. Mi rifilarono invece Barry Newman».
Così il regista Richard C. Sarafian, in un’intervista sulla rete via cavo Tcm, ricordava qualche anno fa il suo film più famoso e imitato, Vanishing Point – Punto zero (1971). Il regista del più concettuale, astratto, dei road movies anni Settanta è morto lo scorso 18 settembre a Los Angeles, all’età di 83 anni, in seguito a complicazioni polmonari sorte mentre era in convalescenza per una frattura alla schiena.
Nato a New York, in una famiglia di immigranti armeni, Sarafian aveva studiato legge e medicina prima di imbattersi, quasi per caso, in un corso di sceneggiatura alla New York University. Durante un viaggio a Kansas City, in qualità di reporter per l’esercito americano, aveva incontrato un aspirante regista, Robert Altman, che l’aveva scritturato in una sua produzione teatrale, Hope is a Thing With Feathers. Sempre a Kansas City, insieme ad Altman (di cui sposò – due volte – la sorella Helen Joan), Sarafian aveva lavorato alla realizzazione di documentari industriali per la Calvin Company, e poi scritto e diretto il thriller a basso costo Terror at Black Falls(’62). Tra gli interpreti di quel suo primo film anche il futuro, grandissimo, direttore della fotografia John A. Alonzo con cui, dieci anni dopo, Sarafian avrebbe collaborato in Vanishing Point.
Spostatosi a Los Angeles sotto l’ala di Altman (che lo prese come suo assistente alla regia), si era quindi fatto le ossa in serie televisive come Gunsmoke, Maverick, Bonanza, Batman e The Twlight Zone (Living Doll, del 1963, su una bambola assassina è una delle sue regie tv più famose).
L’unione tra il training documentario e quello nella produzione di genere per il piccolo schermo, hanno determinato la cifra stilistica libera e precisa di Sarafian, che amava alternare lunghi master a primi piani strettissimi (Leone gli avrebbe detto di essersi ispirato ai suoi western televisivi per i close-up estremi in Per un pugno di dollari).
Tra i suoi amori confessati c’erano il neorealismo italiano in particolare Rossellini e il De Sica di Ladri di biciclette. È quel cinema il suo riferimento, piuttosto che quello di indipendenti newyorkesi del periodo, come Morris Engel (The Little Fugitive) e Cassavetes, che peraltro Sarafian citava come la maggior influenza per Andy, uno dei suoi lavori più emblematici, realizzato per la Universal nel 1965. Girato interamente nelle strade di New York, in quattro settimane d’inverno, con un budget di 295.000 dollari, Andy è la storia di un uomo psichicamente fragile (interpretato da Norman Alden), ispirato a un avventore del bar di Chelsea in cui il regista aveva lavorato da giovane – il Pete’s Hollywood Bar.
Dopo il dramma famigliare Run Wild Run Free (ambientato in Inghilterra) e il thriller Fragments of Fear (ambientato in Italia), arriva Vanishing Point, storia di un ex poliziotto, ex corridore d’auto e veterano del Vietnam di nome Kowalski (Newman), che scommette di consegnare una Dodge Challenger del 1970 guidandola da Denver a San Francisco nel giro di sole quindici ore. Imbottito di benzedrina, inseguito dalla polizia (in moto, macchine ed elicottero), durante il viaggio Kowalski trova il tempo di gareggiare con una Jaguar, di fare amicizia con un cacciatore di serpenti e un biker hippie, e di caricare due autostoppisti che cercano di derubarlo.
Di stato in stato, raccontata alla radio dal disc-jockey cieco del Nevada Super Soul, la sua corsa è una leggenda in divenire, ad altissima velocità, nei paesaggi metafisici del Southwest. Quando arriva al confine delle California, avvicinandosi al «vanishing point», al «punto di fuga» del suo bellissimo finale nichilista, Kowalski è ormai un eroe popolare. Uscito lo stesso anno di un altro grande classico del genere, Two lane Black Top (Strada a doppia corsia) di Monte Hellman, Vanishing Point è il film più indelebile della ricca carriera di Sarafian, adorato da Tarantino (che gli ha fatto un omaggio esplicito con Death Proof) ma i cui echi sono presenti anche in Spielberg (Duel è dello stesso anno, e si sente Vanishing Point anche in Sugarland Express), Walter Hill (The Driver e The Warriors) fino al più recente Thelma and Louise.
Non contento di come era venuto il suo ultimo film, Solar Crisis(’90), Sarafian aveva preferito firmarlo con lo pseudonimo hollyowodiano di rigore, Alan Smithee. Negli ultimi anni della sua carriera, era tornato a recitare in parti da caratterista, per esempio in Bugsy di Barry Levinson, Bulworth (Il Senatore) di Warren Beatty, The Crossing Guard (Tre giorni per la verità) di Sean Penn.