«Te la ricordi la promessa? Te lo ricordi il bucio di culo che se semo fatti quanno siamo entrati qua dentro? Quando la notte non riuscivamo a dormì perché c’erano quelle guardie de merda come te che dovevano venicce a sgomberà?». A parlare con veemenza è Patrick. E ad aver dimenticato o, forse, rinnegato un passato neanche tanto lontano, è Daniel. Sono due fratelli italiani di genitori camerunesi. Il primo è tra i responsabili del comitato che cerca di gestire con difficoltà un edificio romano occupato da numerose famiglie a San Giovanni. In altre parole, è un attivista le cui questioni personali si confondono (e tendono a soccombere) con quelle collettive. Il secondo è un celerino della squadra mobile, ex occupante, prossimo a diventare padre, senza problemi di alloggio, integrato nel sistema, preciso nell’assestare colpi nelle cariche contro manifestanti e tifosi, cioè abile a dosare la violenza per evitare una denuncia.

INSOMMA, uno con il quale non è affatto semplice empatizzare, se si sta dalla parte dei più deboli, cioè di quelli che Patrick difende in prima persona e Daniel attacca per conto di altri. Patrick è ossessionato dal suo lavoro nel comitato, ha perso di vista il fine per cui si è insediato in quel palazzo. Ha lottato con gli altri per i diritti abitativi di tutti, e ora di fronte a uno sgombero che appare inevitabile, quanto profondamente ingiusto, non è in grado di arretrare, non è disposto ad accettare alcun compromesso, tanto meno se a chiederlo (imporlo) è suo fratello.

Andare altrove sarebbe la soluzione migliore per la compagna di origini albanesi e per Davide, il figlio che lei e Patrick hanno avuto quando erano ancora complici. Lo sarebbe meno per sua madre, una donna fiera e, al tempo stesso, lacerata dal conflitto tra i due fratelli, che in quel quartiere ha riordinato la sua esistenza, ha ricomposto i frammenti di una vita che non può essere perennemente in transito. Daniel è altrettanto assorbito dal suo lavoro, da un ambiente che sente come una nuova famiglia. Quella da cui proviene ha deciso di congelarla in un passato che gli serve in negativo per desiderare altro. Il suo capo, Aquila, oltre a essere il suo mentore sarà il padrino della nascitura. Poco importa il razzismo dei suoi colleghi, le battute spregevoli, il contesto ignorante e omologante nel quale ha ricostruito il suo essere al mondo. La cosa fondamentale è far parte di una squadra, essere sodale con un gruppo, ottenere un riconoscimento. E naturalmente avere un luogo sicuro per sé e sua moglie. Lavoro, casa, sguardo basso e famiglia, secondo i canoni di un vecchio ordinamento ancora orribilmente in voga.

IN UN CERTO SENSO, Il legionario, opera prima di Hleb Papou (nato a Minsk nel 1991) presentata a Locarno (Cineasti del Presente, Premio per il miglior regista emergente) e ad Alice nella città, poteva essere un piccolo ed efficace film sulle ossessioni, sulla vana ricerca di certezze, su desideri e frustrazioni, sulla violenza dei cosiddetti valori moderati. Al regista, di cui sentiremo ancora parlare, è mancato il coraggio di allontanarsi dalla mimesi del quotidiano rappresentata in un genere, di prendere congedo dagli stereotipi per affrontare una dimensione nella quale i personaggi hanno dei demoni e non si esauriscono nel ritratto parziale di quotidiani e settimanali, talk show e reportage mainstream. Lo scontro tra Daniel e Patrick non è solo l’estremizzazione spettacolare di uno dei tanti fatti di cronaca. A battersi, in quel conflitto, sono le anime di un’intera collettività che si è sfaldata nel disperato tentativo di conservarsi.