Cosa non è: antipatico, spocchioso. Soprattutto non è uno chef. «Non basta vincere Master Chef per diventarlo. In più a me piace cucinare di tutto, ma solo la prima volta. Poi mi annoio. Mentre il lavoro di un grande chef è quello di mettere a punto una ricetta nei minimi particolari, con fatica e perfezionismo. Preferirei, piuttosto, che qualcuno di loro adottasse le mie idee in merito al cibo.» Federico Francesco Ferrero è una scoperta. È una persona fuori dal comune, dai cliché, ha idee scomode e il politically correct non fa parte di lui. «Si può essere competenti, sicuri e avere successo senza piacioneria. La gente scambia la sicurezza con spocchia. Se io ho vinto Master Chef è perché ho accolto i suggerimenti e mi sono lasciato guidare.»

E infatti non sono certo le ricette il fulcro del suo pensare. Perché di pensare si tratta, e di parole. Parole vere. Al programma ci ha partecipato perché iscritto a sorpresa da un’amica. Ferrero è un grande gastronomo «era chiaro a tutti, tranne che a me. «Infatti, pare spodestasse in totale naturalezza i padroni di casa dalle loro cucine per preparare manicaretti sopraffini anche alle 2 di notte. Già da piccolo fantasticava sul cibo, insieme a un gruppo di amici che si sono trasportati nel tempo. Quando erano impossibilitati a investire in trattorie i soldini guadagnati come animatori nelle colonie, i nostri, sognatori e anche un po’ stranini, diciamolo, per essere degli adolescenti, si inventavano le «cene psicologiche», costituite da piatti fantasticati e inesistenti e, manco a dirlo, difficilissimi. «Adesso che il programma è finito posso dire che il filo rosso del cibo mi ha sempre accompagnato.» «Il segreto della vita è scoprire qual è il proprio desiderio. Non il proprio sogno. Grazie a questa esperienza ho potuto focalizzare che il desiderio della mia vita è ed è sempre stato imperniato attorno al miracolo della cucina. Una cosa che era e diviene qualcos’altro. Non mi interessano le definizioni, essere uno chef oppure un medico. Spero di continuare a essere me stesso nella mia proteiformità. Di rimanere in me e non fuori da me, di incontrare persone, realizzare questo e altri desideri e soprattutto di riconoscerli. Se questo avverrà con la cucina sarò fortunato.»

Il 23 Aprile pubblica il suo suo primo libro dall’ironico titolo di Missione Leggerezza (Rizzoli). Un po’ James Bond un po’ talent star della porta accanto, in esso Ferrero espone il suo culinar-pensiero «Parlare di cibo è sempre stata una passione, per me. La differenza è che ora qualcuno mi sta a sentire. Bisogna fare un’opera di Resistenza. Resistere a questo movimento folle che vuole medicalizzare il cibo. Il corpo umano non è un motore a scoppio. I meccanismi metabolici sono molto più complessi. Il metabolismo ha un’intelligenza sua propria per cui prende da ogni pasto le sostanze che servono e, se ne incamera di più, a causa delle nostre ossessioni gastro-medicali, le elimina. Se dovessimo ingurgitare tutti i nutrimenti che dicono che ci fanno bene dovremmo mangiare tutto il giorno! Il cibo come nutraceutico è un concetto folle.» Resistere anche «allo stra potere delle aziende che controllano il cibo e che ci fanno credere che non abbiamo abbastanza tempo e quindi dobbiamo comprare del cibo finto. Non dobbiamo acquistare il pomodoro del supermarket perché non sa di niente, non perché è velenoso».

Il punto quindi non sono i fornelli, né i media, né il successo che ne consegue «si parte dalla cultura mai dalla tecnologia. Progresso è cultura e conoscenza. Persone in grado di leggere dei libri avranno forza di resistere, apertura mentale, coscienza dell’importanza delle proprie radici. Il problema è che la gente è in anestesia totale, rispetto al gusto, al buon gusto, alla vita.»

Il ragionamento è serio e piuttosto complesso. Il progetto, almeno quello personale del vincitore-scrittore, del libro in questione è ambizioso, una missione «voglio riportare le persone a desiderare. Oggi, col mi piace hai una sola possibilità: gradire o meno una cosa. Non schiacciare il like non equivale al suo contrario. La nota al fondo di 1984 di Orwell sosteneva che quando una lingua fosse stata semplificata (come è successo con il greco modificato, per facilitazione, con decreto)) e fossero stati tolti gli aggettivi per descrivere il dissenso, in seguito avrebbero bruciato i libri e l’uomo non avrebbe più avuto il vocabolario per dissentire. I desideri sono diventati bisogni imposti. Se portiamo l’uomo ad assaggiare un pomodoro vero, del contadino, non desidererà più quello del supermercato. E troverà la forza di uscire 20 minuti prima dall’ufficio dove per altro non sta a far nulla fino alle 8 di sera. Troverà il tempo per i figli, per una vacanza, per pretendere la giusta retribuzione, per godersi un libro, andare a teatro, a un concerto. Per essere vivo».