Lui è cresciuto a Marsiglia, ha studiato a Bruxelles, lavorato con diversi performer – tra i quali  Alessandro Sciarroni – fino a concentrarsi sulla propria ricerca in cui la coreografia diviene spazio politico. Lei è nata a Amsterdam, ha danzato fra gli altri con Akram Khan Company e Jan Martens, la perfomance e il corpo sono limiti da allenare per nuove consapevolezze. Insieme hanno realizzato Sorry But I Feel Slightly Disidentified… pièce in cui Benjamin Kahn e Cherish Menzo, che è da sola in scena, attraversano le rappresentazioni «identitarie» del nostro tempo, ciò che chiamiamo «stereotipi» ma che sono spesso riferimenti condivisi di un immaginario collettivo, Quanto riguarda la sessualità, il gender, l’essere nero o bianco, la mascolinità, il femminile, l’esotismo dell’altro: tutto passa attraverso il corpo in movimento di Cherish Menzo, i muscoli, il respiro, la precisione di un gesto che non si risparmia, che mette in gioco il vissuto creando una narrazione di emozioni e di riflessi.Ne abbiamo parlato con gli artisti durante i giorni del festival di Santarcangelo – che si è appena chiuso – dove è stato presentato lo spettacolo.

Il titolo della performance, «Sorry, But I Feel Slightly Disidentified …» da cosa arriva?
Benjamin Kahn: Volevo un titolo che fosse molto lungo e molto difficile da dire come è complesso spiegare il soggetto al centro del lavoro. In Sorry But I Feel Slightly Disidentified… c’è un anche senso dell’ umorismo che mi piace molto, è un po’ come una di quelle frasi che si lasciano cadere a tavola all’improvviso. Parlare di «disidentificazione» è una proposta importante e piena di conseguenze, per delle comunità riguarda la sopravvivenza stessa. L ‘idea di «disidentificarsi» interroga il rapporto che si può avere con un’identità in generale, non si tratta tanto di porsi contro una definizione identitaria ma di cercare ciò che passa da una identità all’altra. C’è anche un elemento di ambiguità che riguarda chi pone la questione. Se sono io come coreografo che fa dire a Cherish queste parole si delinea subito un problema di legittimità: si può oggi parlare di un qualsiasi altro corpo nella letteratura, nel teatro o non dovrebbe invece essere una scelta in sé problematica, che ci obbliga a affrontare altre riflessioni? Io vorrei che fosse così, e questo titolo esprime il mio desiderio di mettermi in discussione rispetto al soggetto dello spettacolo, di parlare, di accettare, di rifiutare, di porre appunto delle domande su cosa è giusto e cosa no.

Cherish, tu come ha affrontato i numerosi passaggi che interpreti in scena? Figure che appartengono all’immaginario collettivo, che narrano lotte, violenze, maschile, femminile, sessualità, emozioni.
Come performer l’aspetto più importante nel lavoro insieme a Benjamin è che non appaio mai come una «vittima». Le immagini che rappresentiamo sono legate al mio corpo, il pubblico può riconoscere di cosa si sta parlando ma sa che si tratta di una interpretazione con un approccio agli stereotipi consapevole, che si svolge all’interno di un processo creativo. Tocchiamo temi delicati però la mia presenza e l’impegno che chiedo agli spettatori dimostrano che non mi faccio mai inghiottire dalle immagini e dai personaggi, che so come controllarli e restituirli nonostante contengano molti elementi personali.
Benjamin Kahn: Vorrei aggiungere che quando abbiamo iniziato a lavorare non sapevo in che modo parlare di questi argomenti, non volevo partire da un concetto già delineato nel quale racchiudere tutto. Con Cherish abbiamo fatto una serie di interviste sul suo rapporto con il mondo della danza, su come sente il suo corpo, sulla sua vita a Amsterdam, e quanto è emerso un po’ alla volta ha chiarito le direzioni da seguire. I l risultato finale non riguarda unicamente l’esperienza di Cherish, lo vedo piuttosto come un incontro tra due ritratti possibili, il suo e il mio, nel senso che Cherish evoca e incarna anche le mie memorie, il mio vissuto a Marsiglia in una relazione costante con «l’alterità». Siamo andati avanti in una negoziazione continua tra noi, non volevamo che si avesse mai il sentimento della «vittima» nelle immagini a cui dà vita e abbiamo molto discusso su cosa potevo mostrare del suo corpo, sui limiti, sul conflitto tra il mio desiderio e ciò che lei voleva permettere. Però abbiamo sempre saputo che lei non è quelle immagini e solo grazie a questa distanza abbiamo potuto attraversarle evitando, come diceva Cherish, uno sguardo compassionevole o di vittimizzazione verso il corpo dell’altro che instaura subito una relazione gerarchica.

Lo spettacolo è molto emozionante forse proprio grazie a questa distanza narrativa.
Benjamin Kahn: Utilizzare immagini conosciute non bastava, volevamo mescolarle a elementi stranianti, provocare cortocircuiti tra immaginari diversi e situazioni emozionali che si trasfromano pur rimanendo riconoscibili. La performance è vicina a noi, alla nostra storia personale, è una «naked piece» in cui ci mettiamo a nudo.
Cherish Menzo: Credo che questa nudità sia resa possibile dal fatto che nel tempo abbiamo mantenuto un dialogo aperto con la pièce, posso interpretarla seguendo una differente relazione nella messinscena. È sempre in movimento, cosa che comporta un grande impegno ma che per me è fondamentale. L’abbiamo rappresentata la prima volta nel 2018 e non abbiamo ancora finito le nostre negoziazioni.

A Santarcangelo lo spettacolo è stato filmato  per un progetto di film («Transfert con Kamera», da Chiara Caterina, ndr). Qual è il vostro rapporto con il cinema e più in generale cosa pensate del fatto di riprendere una performance?
Cherish Menzo: Abbiamo discusso a lungo se accettare o meno, il contenuto di Sorry … è delicato e fuori contesto può sembrare un’altra cosa. Abbiamo chiesto a Chiara cosa aveva in mente e insieme abbiamo cercato di capire in che modo procedere.
Benjamin Kahn: C’è anche un aspetto interessante nel passaggio da un mezzo all’altro che riguarda le diverse narrazioni ma soprattutto il prolungamento nel tempo. L’idea cioè che questo materiale anche quando non sarà più portato in scena rimarrà visibile per altri coreografi ma trasformato dallo sguardo di una persona secondo gli stati d’animo che gli ha provocato. La conservazione è importante per le arti viventi, ne garantisce una certa continuità; così come mi piace pensare che niente è un prodotto finito. Come artisti dovremmo porci in una dimensione più collettiva, lasciarci attraversare da tematiche che passano da uno all’altro.
Ci sono immagini più importanti per voi?
Benjamin Kahn: Tutte le immagini in scena hanno una storia, nessuna è più forte. Le abbiamo incrociate lavorando sui temi della performance,
Cherish Menzo: Ho delle preferenze come nella vita, nella mia interpretazione c’è una scala che riguarda il modo in cui mi avvicino ai personaggi provando a esplorarne le direzioni possibili.