Una «rivoluzione in rewind», orientata non alla costruzione del futuro, bensì al recupero del passato: questa la prospettiva tracciata nel 1990 dal filosofo liberale Jürgen Habermas, che interpretava la caduta dei regimi comunisti nell’Europa orientale sub specie di un ritorno alla «normale» modernità occidentale, violentemente estromessa in quell’area dall’avvento delle dittature socialiste. Come una simile previsione, già gravata in partenza da un pregiudizio orientalista nei confronti dei famigerati paesi d’oltrecortina, si sia dimostrata per di più irrealistica l’ha dimostrato il recente ventennale della caduta del muro di Berlino: ad accomunare oggi est e ovest non sono certo le progressive sorti della democrazia, bensì le involuzioni generate dall’assenza di un’alternativa alle politiche neoliberali.

ED È PROPRIO la mancanza di quella contraddizione radicale che l’Urss ha incarnato rispetto al modello capitalista a risuonare fin dal titolo nella mostra The Missing Planet. Visioni e revisioni dei ’tempi sovietici’, visibile presso il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato fino al 3 maggio. L’eclissi di un intero pianeta – l’ultimo cui l’immaginario utopico abbia dato forma – in favore di un’affermazione esclusiva dell’Occidente ha indotto i curatori, Marco Scotini e Stefano Pezzato, a dissotterrarne con un approccio quasi archeologico le vestigia, recuperando i frammenti che di quel corpo celeste ora scomparso sono piovuti sul nostro. Gran parte delle opere esposte provengono, infatti, dalla collezione del Pecci, così come da raccolte private, e testimoniano della ricezione che l’arte sovietica e postsovietica ha avuto in Italia a partire da due ricognizioni «storiche» tenutesi nelle sale stesse del museo pratese.
Se Artisti russi contemporanei (1990) rifletteva l’euforia sprigionata dalla perestrojka, nonché l’incertezza caratteristica del breve periodo intercorso tra i due «crolli» (quello del Muro e quello dell’Urss, che ora nella percezione comune tendono a coincidere), Progressive Nostalgia (2007, a cura di Viktor Misiano) tracciava tutt’altro scenario: quello della disillusione subentrata rapidamente alla speranza, oltre ovviamente al rimpianto per una prospettiva universalista e internazionalista che, come scriveva Boris Groys nel suo Poscritto comunista, né la democrazia occidentale, né l’islam politico, né l’idea nazionale russa (allora le opzioni più attuali sul tappeto) erano in grado di offrire. In un simile contesto la nostalgia diventava paradossalmente un sentimento volto al futuro, in quanto vagheggiamento delle potenzialità irrealizzate del passato.

RISPETTO a queste due mostre con cui entra in dialogo, The Missing Planet constata il fallimento di un auspicio, ovvero dell’eventualità che le proteste scoppiate in Russia nell’inverno 2011-2012 segnassero l’inizio di una fase radicalmente nuova, mandando in frantumi la teleologia della transizione in modalità rewind così come l’aveva delineata Habermas. Ciò non è accaduto, e la regressione in atto sembra più che giustificare quella revisione dei «tempi» annunciata dal sottotitolo. «Tempi» tra virgolette, perché non si tratta tanto dell’età sovietica storicamente intesa, quanto dei modelli temporali che quest’ultima ha generato (e continua a generare).
Partendo dal presupposto che il tempo è innanzitutto una nostra costruzione, Scotini e Pezzato evadono la presunta «inevitabilità» delle traiettorie lineari, costruendo un percorso a ritroso dall’andamento spiraliforme che prende avvio dall’idea di progresso che l’Urss ha cercato di incarnare agli occhi dello spettatore occidentale per buona parte della guerra fredda utilizzando gli strumenti del soft power.
L’ampia installazione di Vladislav Shapovalov, basata su materiali attinti all’archivio dell’associazione Italia Russia di Milano, inscena per l’appunto questa proiezione utopica che traeva linfa non solo dall’edificazione del paradiso socialista in terra, ma anche e soprattutto dalla conquista dello spazio, con la conseguente possibilità – secondo le teorie «cosmiste» di Nikolaj Fedorov, Konstantin Ciol’kovskij e Aleksandr Bogdanov – di far risorgere i corpi e quindi annullare il tempo.

IN QUEST’OTTICA, il globo lunare con tanto di nomenclatura in cirillico che fa da «manifesto-icona» alla mostra (inviato in dono dall’Urss all’Italia negli anni Sessanta e recuperato da Shapovalov) dialoga sia con la fantastoria di Arseny Zhilyaev che in M.I.R.: Polite Guests from the Future riflette sul museo come istituzione capace di legittimare narrazioni apocrife (come ad esempio quella di un Vladimir Putin artista contemporaneo e performer), sia con la trilogia filmica dedicata da Anton Vidokle al cosmismo, Immortality For All. Gli innumerevoli cimeli dell’epopea spaziale sovietica prelevati dalla collezione di Italo Rota (distintivi, cartoline ecc) contribuiscono a virare in una direzione più pop questa introduzione spiazzante, finalizzata ad arrestare l’orologio del tempo cronologico.
Il documentario di Andrei Ujica Out of the Present (sulla vicenda emblematica dell’astronauta russo Sergej Krikalev, costretto dal crollo dell’Urss a prolungare di mesi la sua permanenza sulla stazione orbitante Mir) funge da cerniera tra l’atemporalità di questa prima sezione e l’evidente carattere politico della seconda, dove centrale è la riflessione su quel futuro utopico che nel 1991 diventa improvvisamente passato senza essere mai transitato nel presente.

IL «RADIOSO AVVENIRE» assume così i contorni spettrali di una rovina, restituendo al contempo nuovo potenziale semantico non solo al lessico delle avanguardie, ma anche all’iconografia dello stalinismo maturo. I piedistalli vuoti di Vyaceslav Akhunov, gli ingrandimenti fotografici delle decorazioni del metrò moscovita in Vladimir Kupryanov, l’immaginario suprematista piegato alle esigenze della figurazione da Alexandra Galkina e David Ter-Oganyan, così come i loro slogan rivoluzionari su sfondo nero, sono tutti commenti a margine della nuova situazione post-ideologica, senonché Akhunov già negli anni Settanta aveva preconizzato nei suoi disegni i tempi in cui gli «idoli» sarebbero caduti. I giganti del passato diventano a un tratto accessibili (come nella performance di Anatolij Osmolovskij, che dà letteralmente la scalata al monumento di Vladimir Majakovskij a Mosca), mentre Deimantas Narkevicius nel video Once in 20th Century reinstalla una statua di Lenin sul suo piedistallo manipolando le immagini di repertorio del suo abbattimento.

FINCHÉ, VOLTATO L’ANGOLO, non si torna al 1990, quando nulla era ancora accaduto. Installazioni di grande impatto visivo come L’ultima cena di Andrej Filippov, la Kunstkammer di Sergej Volkov, le surreali tassonomie del gruppo Perzi o le «irragionevoli comunicazioni» verbovisuali di Medicinskaja germenevtika testimoniano di un momento in cui la persistenza dell’immaginario ideologico a fronte dell’allentamento della pressione esercitata sugli artisti istigava tentativi ironici di decostruzione del linguaggio sovietico (com’è evidente nell’Iconostasi imperiale di Boris Orlov), oppure a fughe ancora più stranianti nella psichedelia. Esperimenti che, di lì a breve, il terremoto politico avrebbe svuotato di senso, costringendo gli interpreti di quella stagione al silenzio, alla manieristica ripetizione di sé, oppure a cercare faticosamente una nuova strada.