Il dialogo tra Mariuccia Ciotta, Rossana Rossanda e Roberto Silvestri è una piccola miniera di analisi, riflessioni sull’estetica cinematografica, ma anche, e soprattuto, una «controstoria» dell’Italia repubblicana a partire dalle immagini che nel Novecento sono passate sul grande schermo. Certo, alimenta un riflesso da classifica, cercando di confrontare la propria classifica dei film più amati con quelle dei partecipanti a questa incalzante vivisezione sul «modo di produzione» cinematografico, dove il linguaggio e l’estetica sono parte integrante della merce film. Così scopri che alcune suggestioni e griglie di lettura della cinematografia degli ultimi quarant’anni ha portato a valorizzare, anzi amare pellicole come quelle del ciclo di Guerre stellari, la prime tre puntate della saga di Alien, le due di Terminator, Blade Runner e, per citare un film che occupa alcune pagine di questo libro, Avatar di James Cameron. D’altronde, stilare classifiche sui film più amati è un ricorrente gioco di società, che fa emergere tessere di quel mosaico spesso indecifrabile che sono le soggettività.

I tre autori di questo volume – due intervistatori (Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri) e un’intervistata (Rossana Rossanda), che si trasforma con leggerezza e efficacia spesso in intervistatrice, incalzando i suoi interlocutori – non conducono tuttavia un gioco di società. Discutono di una materia incandescente per il pensiero critico: il ruolo della cultura popolare, i suoi legami con quella dominante. Rossana Rossanda non nasconde la sua convinzione che spesso il cinema è un’arma di propaganda delle classi dominanti e che il grande schermo, al pari della televisione, ma in forme diverse, contribuisca a definire l’ideologia dominante. Ciotta e Silvestri non negano tale possibilità, ma sostengono con convinzione che la cultura popolare può essere, anzi spesso è stata  una forma di resistenza al potere costituito che ha avuto riflessi sul grande schermo. E fin qui è una discussione che chi scrive ha visto dipanarsi per anni nelle stanze di questo giornale, vedendo Rossanda, Ciotta e Silvestri impegnati, assieme a molti altri componenti del collettivo, in un serrato dialogo che si è sempre trasformato in felici momenti politico-giornalistici (un sentimento persistente nella lettura del volume: che tale discussione non avvenga più nel giornale).

C’è però un passaggio molto importante in questo libro, che ne costituisce una possibile chiave di lettura. Riguarda la fine dell’egemonia del cinema americano (con la conseguente emersione di altre cinematografie) e l’ingresso di una nuova generazioni di cineasti che sconvolge gli equilibri di potere a Hollywood.

Sulla fine dell’egemonia americana sul grande schermo c’è poco da dire. Da anni India, Hong Kong, Corea del Sud sono poli importanti nella produzione cinematografica. Lo stesso, anche se in scala minore, si può dire del cinema prodotto in Africa. Una crescita di importanza che ha costretto le major americane a «importare» registi, attori e sceneggiatori da fuori. Una «circolazione di cervelli» che non costituisce certo una novità per Hollywwod, che ha spesso usato tale «immissione» di materia grigia per innovare prodotti e processi produttivi. Quel che invece non era contemplato dalle major è la diminuita capacità del cinema americano di produrre film che abbiano la capacità di diventare prodotti globali. Una capacità, invece, che Roberto Silvestri vede incarnata da una nuova generazione di cineasti che sono diventati nel corso del tempo figure centrali dello star system cinematografico. George Lucas, Steven Spielberg, James Cameron, Steven Soderbergh, Francis Ford Coppola e tanti altri si formano nel clima ribelle degli anni anni Sessanta statunitensi. Il loro sguardo verso gli Stati Uniti è fortemente influenzato da quello spirito del tempo. Un’attitudine non conformista che si riflette nei loro film, sia nelle scelta dei temi che dei generi cinematografici. Sono cioè cineasti che attingono a piene mani nell’immaginario collettivo e lo rimodellano in forma cinematografica. In questo, usano le sottoculture e le controculture come materiale da plasmare per produrre merci che abbiano, queste si, una diffusione globale. Favoriscono, negli anni, una ambivalente provincializzazione degli Stati Uniti. L’american way of life si tinge di altri colori e «annette» stelle «altre» alla bandiera a stelle e strisce dell’immaginario hollywoodiano. Sta in questo «movimento» il loro difficile, se non conflittuale rapporto con le major, in crisi di creatività e di bilancio. E se tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del Novecento il giro di valzer di fallimenti e fusioni  vede presenti i giapponesi, al punto che sono molti gli analisti che considerano un inevitabile destino l’acquisizione di molte major da parte delle imprese made in Japan, sono un ventennio che prepara una vera e propria «rivoluzione» del modo di produzione holliwoodiano. Decentramento produttivo, cacciatori di tendenze, impresa a rete: espressioni che indicano proprio tale «rivoluzione manageriale» che vede la nuova leva di cineasti i veri protagonisti. Lucas dà vita a una società produttrice che si specializza in effetti speciali, utilizzando massicciamente le tecnologie digitali, diventando «fornitrice di servizi» a tutta hollywood e all’industria dei videogiochi; Spielberg fonda una sua società e fa lucrosi affari anche con Steve Jobs con Pixar; Cameron diventa un produttore cinematografico che sforna software brevettato e che diventa una macchina di profitti. Inutile dire della convergenza con l’industria dei videogiochi prima e con la rete poi. Nel libro pochi sono i riferimenti a Peter Jackson, regista che meriterebbe un discorso a parte, per la sua capacità di spostare il centro di produzione fuori dagli Stati Uniti e, al tempo stesso, di essere uno dei pilastri della nuova capacità produttiva globale di Hollywood. Su un altro versante importante è anche Quentin Tarantino, che pesca nelle sottoculture dei migranti messicani o nell’immaginario made in Japan per sformare film «globali».

Quella dei nuovi cineasti è una indubbia capacità è di occupare un vuoto di potere, riempiendolo di idee, progetti, assetti produttivi. Lo fanno attingendo a una «bacino» di idee, modi d’essere, stili di vita, sottoculture, frullandole e ricomponendo il tutto al fine di mettere prima su celluloide poi su dispositivi digitali un immaginario che sia compatibile con gli assetti di potere del capitale. Certo, ci sono anche alcuni aspetti che sfuggono al controllo, ma sta in questo controllo a intensità variabile uno degli indici della «potenza culturale» che riescono ad esprimere. La provincializzazione degli Stati Uniti è così compiuta. L’esito è un settore produttivo, quello cinematografico americano, che è globale: nella diffusione, nell’uso spregiudicato di materia grigia non americana e nella capacità di far convergere il grande schermo con il piccolo schermo delle consolle dei videogiochi e della Rete.

Certo, questa è materia del nuovo millennio. Per il film del Novecento, il rinvio è alle pagine di questo godibile libro firmato da Mariuccia Ciotta, Rossana Rossanda e Roberto Silvestri.