In questo passaggio storico deprivato del futuro abbondano i vaticini, alcuni talmente smisurati da far venire il capogiro. L’impressione è quella di una insistenza a voler ingurgitare una enormità come quella che stiamo attraversando colpevolizzando la nostra finitudine di non riuscirci. E siccome è stato messo tutto a soqquadro ben prima della emergenza sanitaria, una certa retorica a buon mercato sembra domandarci di sostenerne il carico senza darci l’agio di alcuna digestione plausibile.

COSA RISERVERÀ il cosiddetto futuro non possiamo stabilirlo, strabica risulterà adesso la forma predittiva, visto il grado di sfinimento attuale che potremmo invece ascoltare insieme. Eppure il futuro, esistente o meno, è dimensione temporale ancora più obnubilante se considerata disincarnata, privo come è per proprio statuto di qualsiasi punto di esperienza. È tuttavia un barare, sia pure sulle nostre vite, che nell’astrazione anticipatoria non fa una piega, se non fosse che la perfezione, per dirla con Sylvia Plath, è terribile, non genera figli.

Altra cosa è l’immaginazione, questa sì facoltà che ci rende creature imperfette e al contempo sconfinate. Ancora una volta allora possiamo ringraziare le scrittrici, quelle che non si ergono, neppure in questa circostanza, a paladine della divinazione universale ma raccontano partendo da se stesse come il mondo tocchi anzitutto la propria vita. La scrittura di Maria Rosa Cutrufelli non si sottrae a una tale benedizione quotidiana, detesta i teoremi e perciò credibile, preziosa, adeguata a offrire visioni restituite poi con pazienza ai corpi. E alle esistenze di questi corpi.

L’isola delle madri (Mondadori, pp. 240, euro 18) è un romanzo che potrebbe essere rubricato come distopico se non avessimo appreso che la distopia appartiene a un orizzonte piuttosto consolatorio in cui si relega la realtà a un anfratto eventuale indesiderabile e futuribile che invece è già qui, con noi. E ci riguarda. Nessuna contrarietà all’utopia, piuttosto luoghi precisi in parte già visitabili, che sollevano le incrinature del mondo e dicono con semplicità che c’è un dolore innominabile. Ci è accanto anche il mutamento climatico al centro del romanzo; così come sondiamo da anni la questione della riproduzione e della maternità nelle sue forme plurali. Alla catastrofe già avvenuta, Cutrufelli ha il pregio di attagliarle parole che mancavano e che ora invece si fanno strada grazie alla sua gestazione sensibile di parole: una di queste è il vuoto.

NELL’ISOLA individuata dalla scrittrice, lingua di terra dedicata alla clinica riproduttiva affidata a una società, il vuoto è una malattia che ormai ha pervertito ogni cosa che si poteva ipotizzare vicina alla vita dei viventi. Non si nasce più nella maniera consueta, bensì esclusivamente in sintonia con la tecnica. È un lembo terrestre che, come i corpi, sembra galleggiare nelle acque della mancanza di radicamento. Ci si volta indietro per comprendere meglio il presente mentre il passato, in apparenza, si slaccia dalla propria genealogia. Responsabile della drammatica sorte è chi ha scempiato il circostante provocandone il tracollo, idrico in particolare, osteggiando le forme del convivere e delegandole al controllo capillare. Nell’isola, e nel mondo, senza acqua, il vuoto è quello della sterilità. Non è nelle intenzioni di Cutrufelli un giudizio morale o di insipienza femminile, non c’è nessun ruolo che non si sia potuto assolvere bensì un dato che risponde alla infelicità di aver perso l’orientamento consonante al desiderio e alla sua espressione. Si tratta dunque di una costruzione non lineare del qui e ora che indaga e patisce ogni rivolo dell’umano limitrofo.

Conosce, Cutrufelli, le parole del mondo che è arrivato a visitarci e di cui gli unici ospiti sgraditi, a quanto pare, siamo noi. Come le donne si rigiocano, a partire dalle proprie relazioni, vulnerabilità e rifiuti è la vera scommessa del romanzo. Livia, Mariama, Kateryna e Sara (che dirige la Casa della maternità) sono personagge dalla biografia molto diversa eppure accomunate da un unico luogo geografico in mezzo al Mediterraneo; un atollo nevralgico da un punto di vista scientifico ma di cui la sperimentazione non leva né aggiunge niente alla loro personale capacità di contrattare l’altrove, la propria libertà e infine la nascita.

PERCHÉ ALLA SPARIZIONE dei bambini, dice Cutrufelli, bisognerà pur pensarci. Origine complessa e misteriosa, il venire al mondo racconta suoni e volti che tessono simbolico e materiale intrecciati ad altre traiettorie di scrittura in cui alle intrusioni si tessono strettoie magnifiche. Viene in mente ciò che racconta Paola Masino in Nascita e morte della massaia, con la sua bambina senza nome, reclusa non da posti di blocco e capace di parola estatica. Oppure di Maja Lunde in La storia dell’acqua quando nel mondo ormai secco da decenni si aggirano profughi a cui comunque non manca l’amore per le creature piccole come Lou. O ancora ciò che suggerisce José Saramago nel suo Memoriale del convento attraverso lo spiraglio placentare e veggente di Blimunda quando ammonisce che la morte è prima della vita, «è morto chi siamo stati, nasce chi siamo», lo ha imparato essendo stata a occhi aperti nel ventre della propria madre. Da lì vedeva tutto.