Cultura

Oltre il paradigma dell’emergenza

Oltre il paradigma dell’emergenzaUn'opera di Antony Gormley

Tempi presenti Dovremo confrontarci a breve, con un vero e proprio mutamento antropologico: stanno trasformandosi le idee e le immagini che gli individui nutrono di se stessi. L’età che si sta inaugurando è un lungo dopoguerra accompagnato da un’ampia ristrutturazione sociale

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 3 aprile 2020

Possiamo discutere a lungo su eccezioni, così come su emergenze, ma lo Stato non nasce per garantire la vita personale in quanto tale bensì le condizioni comuni di continuità dell’esistente. Lo scarto non è da poco, poiché non chiama in causa le singole vite, la cui traiettoria è del tutto inessenziale al di fuori di loro medesime, bensì il quadro dentro il quale l’esistenza dei più, altrimenti del tutto anonima, continui a sussistere. Non si è mai generata un’organizzazione sociale che si occupi della singola esistenza in quanto tale. Socialità e individualità, in questo caso, non coincidono in alcun modo. Vita o morte di questo, piuttosto che di quello, sono una variabile indifferente ai grandi numeri. Che contano, ma non pesano.

L’ORGANIZZAZIONE cinese della risposta alla pandemia, alla quale anche molti europei (tra cui alcuni nostri pallidi e pavidi liberali) guarda ora come ad un interessante modello di riferimento, lo sa bene e lo ha dimostrato: dal 1949, non rilevano le persone ma la protezione del contesto in cui esse operano o dovranno riprendere ad operare. La nuda vita degli esseri umani è, per definizione, cura delle singole persone ed, in immediato riflesso, di coloro che si prendono premura di essa, poiché la conoscono ed in essa si riconoscono. Mentre invece è parte essenziale per l’organizzazione collettiva lo sforzarsi di preservare la cornice entro la quale la generalità (o genericità biologica) della specie, possa continuare ad esistere. I fascismi lo avevano non solo teorizzato ma praticato, nascendo dalle trincee e dichiarando che il nucleo dell’esistenza è la sopravvivenza del gruppo, non del singolo.

Le pandemie fanno infatti strame di molte sovrastrutture ideologiche e affettive, richiamando all’essenzialità delle relazioni sociali, ossia alla preservazione delle condizioni per cui esse possano riprodursi, possibilmente in una situazione diversa da quella di emergenza vigente. L’accettabilità morale di questo riscontro, soprattutto ad uno sguardo retrospettivo – ovvero a distanza di sicurezza, quando le dure condizioni oggettive non ci colpiscono più direttamente -, è una variabile che muta nel corso del tempo. Il paradigma dell’emergenza, quindi, si inscrive pienamente all’interno di questo campo.

Piaccia o meno. Poiché ci dice che la distanza di sicurezza, quella per cui ci esprimiamo, al limite pontifichiamo, poiché non ci sentiamo direttamente – ossia personalmente – chiamati in causa, è un fatto puramente illusorio. L’emergenza è tale quando riconduce il politico, campo della mediazione, alla dimensione esistenziale. Si sono scritte biblioteche al riguardo, spesso con sguardo analitico raffinato. Ora ci misuriamo per la prima volta, in quanto generazioni del dopoguerra, con la nostra crisi e non con quella, rivestita di idealizzazioni positive o negative, di persone, tempi e storie a distanza di sicurezza da noi stessi.

RISCONTRIAMO ancora una volta, quindi, che la tangibilità della nostra singola esistenza, come fatto sociale e non meramente biologico, non è sovra-ordinabile, ponendosi a prescindere da un dispositivo politico e amministrativo; semmai questa, nel momento in cui si sente messa a rischio, si aggrappa ad esso per chiedere la residua protezione, fosse anche quella di uno Stato inclemente e ingiusto ma presente.

L’esperienza che facciamo della nostra esistenza, quando la prevedibilità quotidiana è messa in discussione, è soprattutto quella della sua visibile, manifesta, conclamata fragilità. Non ci si basta da sé. È forse questo il primo riscontro traumatico: perdiamo le false piume dell’intoccabilità, del pensarci come capaci di gestirci a prescindere. Non sappiamo cosa farcene della libertà del liberista, quella che ci dice che in potenza potremmo fare tutto da soli in quanto, concretamente, nessuno ci aiuterà a liberarci dalle catene del bisogno immediato, quotidiano. Quell’illusorio fare tutto quello che si vuole di sé, del liberismo, corrisponde al riscontro che si è incapaci di valere da se stessi, ossia senza una rete di sostegno, a partire da quella pubblica.

La nostra vita è, d’altro canto, perlopiù legata alla quotidianità, e se quest’ultima ne è stravolta è la nostra stessa esistenza a doverne misurare gli effetti. Vale anche per quel pensiero radicale che, senza il politico, la sua naturale sponda, è fine a se stesso, dichiara da subito la sua impotenza, appallottolandosi nelle parole prive di risonanza con le quali difende le sue prerogative autoreferenziali. Accademismo puro, per intenderci, laddove esso non è tale poiché promana da un luogo di studio ma perché ci dice, nel suo stesso manifestarsi, dell’impossibilità di collegarsi alle necessità dell’esistenza quotidiana, dalle sue insopprimibili urgenze, dal grido della creatura ferita che non trova parole per descrivere la sua condizione.

UNA QUARANTENA collettiva dà corso ad un’inedita forma di socialità, quella che deriva dal condividere la medesima condizione sulla scorta, tuttavia, del «distanziamento sociale». Siamo accomunati dall’essere divisi. Siamo omologhi nel rappresentare, gli uni per gli altri, un rischio. Quindi non una possibilità, non una potenzialità. Un paradosso, poiché la pandemia, nel suo essere comune condizione, ci dice che una parte della nostra contemporaneità si gioca proprio sulla necessità di stare separati in quanto «uguali». Non eravamo preparati a questa prova. Non in questo modo, almeno. Senz’altro non in termini di culture politiche, sociali, di relazioni e affetti, di vicinanze e reciprocità. Anche questo ci rende più indifesi, se non feriti.

Da quale sarà la nostra capacità di rimarginare una tale offesa dipenderà la capacità di riappropriarci di una decisione politica della quale, passo dopo passo, già da tempo ci siamo lasciati espropriare. Molto deriverà da ciò che emergenza non è ma ne costituisce il suo velenoso lascito, quegli spazi di indeterminazione, ovvero l’insicurezza generalizzata, dove si inserisce il vero potere securitario, quello che si fa beffe di ogni forma residua di democrazia poiché si impone come il garante rassicurante di un ordine, purchessia. Il vero tempo che si sta inaugurando è un lungo dopoguerra, che accompagnerà una generazione che sarà contrassegnata da una profonda ristrutturazione sociale. Inutile accampare da subito previsioni. Fin troppo facile, comunque, intendere che in un regime internazionale che esalta la diseguaglianza, a pagare il prezzo più corposo saranno i meno forti. Ma il punto non è solo questo.

DOVrEMO CONFRONTARCI, a breve, con un vero e proprio mutamento antropologico: stanno infatti trasformandosi le idee e le immagini che gli individui nutrono di se stessi. Verso quale direzione ci è impossibile dirlo. Abbiamo esclusivamente un armamentario di riferimento, quello dell’industrialismo novecentesco, che adesso non ci soccorre. Si sta generando qualcosa che non è solo «altro» ma è un oltre. Qualcosa che soprattutto, al momento, ci segnala la nostra obsolescenza. Non vince chi governa l’emergenza. Semmai, ne uscirà sfiancato. Da noi si tratta delle senescenti democrazie liberali, che dovranno confrontarsi con la loro intrinseca fragilità. Non è nello «stato di eccezione» che si misura la nuova sovranità. Il vero sovrano è chi riuscirà a dare anche solo una parvenza di accettabile normalità ai tempi a venire, quando il grande cataclisma sarà in parte placato e usciremo dai nostri rifugi domestici. Più poveri e fragili di quanto già sappiamo di essere.

Ancora una considerazione, a margine di queste parole. C’è chi chiede «chiarezza». Il primo riscontro, al riguardo, è che la chiarezza – tanto più se come attributo politico – è l’accettazione che la pandemia ci porta definitivamente nell’età della complessità. Che non vuol dire incomprensibilità ma sforzo acuto di analisi. Antonio Gramsci non era «semplice» e men che meno facile, poiché analizzava dal carcere i suoi tempi, declinandoli come mutevoli, stratificati, per l’appunto difficili. Mai risolse il giudizio politico nell’esercizio morale, sapendo che il secondo, da sé solo, sarebbe stato una mera scorciatoia. Tutto il socialismo di allora era crollato su questo equivoco. La chiarezza è un bene raro, una «merce» difficile da produrre. Si incontra e si confronta con l’informazione, ossia la diffusione di cognizioni. La chiarezza non nasce da una coscienza a sé, un’illuminazione, una «rivelazione» che in storia – generalmente – produce invece quella falsa coscienza che è il messianismo, inesorabilmente indirizzato alla catastrofe. Anch’essa, al pari delle ricerca in medicina e nelle scienze cosiddette «esatte» richiede investimenti, risorse, tempo, confronti, a volte anche conflitto laddove questo sia produttivo.

NULLA SI GENERA DA SÉ ma richiede un lavoro di analisi, verifica, riscontro, a volte rifacimento da zero. Il lavoro intellettuale (e politico) ha un costo in termini di energie, tempi, relazioni, costi di investimento. La scelta, in questi decenni, di tagliare la ricerca, non solo quella strettamente scientifica, produce il declino della ragione e poi, della vita biologica. Poiché all’una si sostituisce la superstizione, alimentata da santoni assortiti; all’altra, l’esistenza prima coatta e poi moribonda, di chi diventa un cadavere prima ancora che gli altri lo debbano seppellire. La politica ha seguito questo declivio. Adesso si aprirà, faticosamente, un oltre. Starà ad ognuno di noi fare i conti con l’età delle fiabe, delle dolci menzogne, del nostro ossessivo spaesamento. Torneremo a contarci. Come fecero coloro che ci precedettero, in epoche ancora più dolenti di quella che stiamo vivendo.

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