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Oltre il confine per contaminarmi: Testori e la Svizzera

Oltre il confine per contaminarmi: Testori e la SvizzeraVarlin/Willy Guggenheim, «Scuola»,1950

Topografia eccitata, la Svizzera testoriana, con al centro la valle «imbluastrata» di Bondo, dove troneggia quella specie di Ubu roi pittorico che fu Varlin. Sul versante tedesco, invece, la passione insegue il nuovo selvaggio Disler e «un ragazzo dai polsi di gitano»...

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 30 agosto 2015

«L’abbraccia il suo testicolini». Così Giovanni Testori s’accomiatava da Willy Varlin in una lettera datata 18 giugno 1972. «Testicolini» era il nomignolo con cui quel grande «anarco-pittore» svizzero aveva ribattezzato uno dei suoi critici d’elezione. Lo scrittore novatese, al quale l’ironia e la voglia di divertirsi a dispetto dell’etichetta borromaica non mancavano, era stato al gioco e si era appropriato di quel nomignolo. Così Testori, che era tale sino all’amata Chiavenna, si trasformava in «testicolini» appena varcato il confine e messo piede in val Bondasca, cantone dei Grigioni, Svizzera. Terra di confine, terra dalle identità che si incrociano e sfuggono a ogni schema. «L’unico cantuccio di mondo», scrisse Giorgio Spini, «in cui il culto in italiano sia sopravvissuto ininterrottamente dalla Riforma del secolo XVI ad oggi». Terra riformata dunque, in quanto aveva accolto da sud i personaggi messi nel mirino dall’Inquisizione ed era stata investita da nord dal vento luteran-calvinista.
Val Bondasca e val Bregaglia (la valle madre) erano una sorta di porto franco per spiriti apolidi. Al confine nord, sul Maloja, aveva trovato provvisoria patria uno che a tutti gli effetti fu davvero apolide, Giovanni Segantini. Proprio a Segantini Giovanni Testori, nel 1942 (allora ancora teenager), aveva dedicato il suo primo scritto in assoluto, pubblicato sulla rivista «Via Consolare». E Segantini è dunque il primo nome che si incontra nella Bibliografia dello scrittore curata da Davide Dall’Ombra – uno strumento prezioso e unico che dovrebbe essere replicato anche per altri scrittori del secondo Novecento, a partire da Pasolini.
I ritorni di Giacometti
Invece a pochi chilometri dal confine era nato e aveva molto vissuto Alberto Giacometti, il quale appena gli riusciva tornava qui da Parigi con ogni mezzo, taxi compreso. Giacometti era morto nel 1966 e da allora se ne sta sepolto nel piccolo cimitero di Stampa, a fianco della madre Annette e del padre Giovanni (pittore pure lui), per il quale aveva scolpito una tomba con una testa-totem, a partire dalla quale Georges Didi-Hubermann ha scritto un libro memorabile. Proprio un disegno della madre Annette era invece stato scelto da Testori per la copertina di uno dei libri a cui era affettivamente sempre più legato, Conversazione con la morte, scritta all’indomani della morte della sua, di madre. Giacometti per Testori era sostanzialmente un senza patria, che aveva lasciato la Svizzera per staccarsi dalla cultura ancora tutta «nazionale» del padre, restando irriducibilmente legato a quel fazzoletto di Svizzera dove nelle forme aspre delle rocce aveva metabolizzato l’idea degli spuntoni di gesso e di bronzo che sarebbero diventate la sue sculture.
Trait d’union tra Giacometti e Varlin era stato un medico che aveva curato entrambi, che aveva posato pr entrambi e che era diventato collezionista di entrambi, Severino Corbetta. Originario di Carate Brianza era arrivato a Chiavenna nel 1942, da dove non si sarebbe più spostato, rinunciando a una brillante carriera universitaria. Personaggio appassionato ed eclettico aveva naturalmente stretto amicizia anche con Testori, a cui lo legava anche la comune conoscenza di Mario Negri, scultore valtellinese.
Varlin, che era zurighese e il cui vero nome era Willy Guggenheim (il nomignolo lo aveva preso da un anarchico francese, in prima linea nella Comune del 1871), arrivò a Bondo per amore. Aveva sposato una donna bregagliotta di trent’anni più giovane, Franca Giovanoli, e l’aveva seguita al suo paese. L’appunto di diario con cui Varlin racconta il primo incontro, restituisce tutta l’ironia del personaggio: «Franca Giovanoli compare nell’atelier come modella, s’informa prima su di me, scopre che sono innocuo, che sono principalmente specializzato nel dipingere ombrelli». Si sposarono, ebbero una figlia, Patrizia, e si stabilirono in una casa contadina nel centro del paesino grigionese: un angolo di Svizzera lontano da quello stereotipo di paese al quale Varlin riservava abitualmente giudizi sarcastici. «Un sanatorio sterile per persone sane», questa era per lui la Svizzera. Meglio quindi andare a respirare aria di frontiera…
La mediazione di Carluccio
Testori aveva conosciuto Varlin grazie a Luigi Carluccio, un critico capace di grandi intuizioni, che oggi immeritatamente sconta una dimenticanza, forse perché gli viene attribuita una linea troppo schiacciata sul figurativo. Ma fu Carluccio il primo a portare Bacon in Italia con una mostra a Torino, alla Galleria Galatea di Mario Tazzoli, nel 1962, la stessa Galleria che nel 1968 propose la prima mostra italiana di Varlin. A Testori venne chiesto di scrivere il saggio di catalogo, che nell’esergo contiene proprio un ringraziamento a Carluccio, «che per primo m’ha parlato del grande Willy».
L’uomo Varlin e la sua pittura sono un tutt’uno nell’immaginario testoriano («…lui, che alle sue opere s’annette con una naturalezza talmente agevole da rasentar l’impudenza», scrive infatti nell’introduzione del 1968). Così Bondo, ovvero «Varlinburg», in breve diventa uno dei luoghi topici della sua geografia: la rotta Milano-Chiavenna -Bondo è una delle più frequentate da Testori tra fine anni sessanta e inizi Settanta, sino alla morte di Varlin avvenuta nel 1977. L’eccitazione accesa dalla pittura varliniana trova un corrispettivo nell’eccitazione suscitata dal luogo: «Bondo, che è diventato uno dei punti nevralgici e centrali della mia esistenza», confessa in quella lettera del 1972. Testori stesso dipinse un paio di acquerelli con il Pizzo Badile che domina, o meglio, incombe su Bondo. Tra le righe di quella stessa lettera lascia intendere che la relazione con Varlin fu in qualche modo tra i fattori che lo avevano convinto a tornare a dipingere dopo oltre vent’anni.
I ghiacciai del Badile
Bondo era un paese che con i suoi lunghi inverni senza sole accendeva come pochi altri la fantasia dello scrittore. «Per ben tre mesi non batte sole; né sul paese, né sui tetti e i muri dello studio-capanna-cisterna-cascina-zattera-erbario della nostra “trafitturata” umanità», racconta Testori. E l’immaginazione corre a evocare le ombre che calano tra le case «fameliche e malinconiche» come «valchirie dei Quattro Cantoni», la valle «imbluastrata e inviolastrata», i ghiacciai del Badile «corone di gelo e spade di diamante, contro il cielo che attende, ormai e solamente, il silenzio negro e totale della notte»
Per capire bisogna esserci stati. «Bisogna aver vissuto, lassù, a Bondo, con Varlin. Bisogna aver atteso con lui, nello studio, l’arrivo di quell’ora stregata e fatale; magari nella posizione di “modello”: posizione e insieme privilegio scomodi certo, ma eccitanti».
La contaminazione «bondasca» accende e fa deflagrare la lingua di Testori, che non a caso proprio in quegli anni arriva a inventare, per Franco Parenti, una lingua nuova, formidabile impasto di latino, lombardo, francese, italiano; nel gennaio 1972 con L’Ambleto apre i battenti l’allora Salone Pier Lombardo, oggi Teatro Franco Parenti. Alla prima era presente anche Varlin, che commentò con quel suo consueto acume venato di umorismo: «Mi sembra un incrocio tra le marionette (nell’atrio del teatro erano esposte le marionette dei Fratelli Colla, ndr) e un calvario». E vien anche da chiedersi quanto l’invenzione della lingua dell’Ambleto (e poi del Macbetto e di Edipus) sia debitrice della parlata varliniana, deliberatamente scorretta, pastiche quotidiano di tedesco, dialetto bregagliotto, francese e italiano. Siamo nel campo delle suggestioni, ma il Varlin che conquista Testori non è solo l’artista che con Bacon e Giacometti compone, come da sua convinzione più volte riaffermata, la triade dei più grandi del Dopoguerra. È anche il «ridente gnomo» che gira le spalle a Zurigo e al sistema, per andarsi a rintanare a Bondo. È quell’Ubu roi della pittura europea, «quell’arruffato e incomparabile genio» che ha permesso a Testori di delineare un’antistoria dell’arte di fine Novecento, dove la figurazione rilancia la sua sfida, con il tono imprevisto del ghigno e della risata.
Un’arte «rossiniana»
Nell’introduzione alla mostra del 1968, primo di una lunga serie di testi dedicati a Varlin (sono stati raccolti in un volume, La cenere e il niente, edito da Le lettere nel 2009), Testori proponeva un correlativo musicale per la sua pittura: era significativamente il correlativo con Rossini. Scrive a proposito di uno dei suoi ritratti più famosi, quello di Heini Gantenbein: «Guardate se non è rossiniana la decisa, superba slogatura degli attacchi anatomici; la spavalderia, la sovrana “nonchalance” con cui il pittore stacca e attacca, cambia, sovrappone e inverte i tempi, forma, insomma, e subito sforma…». E poi ancora: «Non è, quella di Varlin, una materia mimetica; è una materia possentemente e volantemente ritmico-mimetica, muscolo musicale; il suo aderire ed innalzarsi ha il segreto dell’identificazione ritmica, non fisiologica, o di una fisiologia che diventa ritmo…».
Bondo, Varlin e la sua pittura diventano una sorta di porto franco della geografia testoriana. Un luogo dove l’amicizia e l’estro mettono in scena una fantastica opera buffa; una danza a due attorno ai poteri stregoneschi della pittura. A due in quanto Testori più e più volte posò per Varlin. Scrive nel 1975: «Da qualche tempo Varlin mi “tampina” perché vada su a posare davanti a lui, quanto più m’è possibile. Per convincermi ogni tanto mormora: “Avec un tête come la votre, on ne s’arretrâit jamais…”». Risultato: «Mi sono visto crivellare gli occhi due, tre, quattro, cinque, sei, sette volte, così, d’un colpo, come in un affondo di spada; me li son visti crivellare e trasportare, tac, tac, nel mezzo della “facciazza” sfregiata più che dipinta o dipinta più che sfregiata, ovvero tutt’e due le cose nello stesso, precisissimo istante». Culmine di questa danza a due è l’Apocalisse, immensa tela del 1974, in cui Testori troneggia su una traballante poltrona, sotto un sole «irreale e metaforico da Patmos dei Grigioni», occupando lo spazio nel quale, in una prima versione, Varlin aveva dipinto un cimitero. Il telero più che un’apocalisse sembra la narrazione di un’apoteosi di libertà umana e di sfrontatezza intellettuale. Il tutto visualizzato grazie alla «perizia psicotattile e psicopittorica travolgente» di Varlin.
Malinconie lacustri
C’è poi anche un’altra Svizzera nella geografia di Testori. È una Svizzera diversa, più organica al sistema costituito dei suoi valori, una sorta di appendice lombarda oltreconfine. È una Svizzera i cui umori sono impregnati di delicatezze e di malinconie lacustri e che per Testori è sempre stata terra fitta di scoperte, di amicizie e di relazioni, come si può dedurre dalla frequenza con cui parla di mostre e artisti ticinesi negli anni in cui tiene la critica d’arte sul Corriere della Sera. Ovviamente il primo di questa schiera di ticinesi-lombardi è stato in ogni senso Giovanni Serodine, il grande caravaggesco asconese, che Testori aveva potuto scoprire alla grande mostra caravaggesca del 1951, organizzata da Roberto Longhi a Palazzo Reale di Milano. La sua traiettoria di storico dell’arte si era poi orientata verso altre periferie, quelle valsesiane di Gaudenzio Ferrari e di Tanzio da Varallo. Fu nel 1979 un giovane studente luganese, Rudy Chiappini, laureando alla Statale di Milano, a sottoporgli l’idea di affrontare Serodine. Chiappini aprì un cantiere di studi che approdò a una mostra monografica del pittore ticinese organizzata a Casa Rusca a Locarno nel 1987 (mostra poi approdata anche a Roma). Testori, che aveva scritto un saggio in catalogo, parlò della mostra sul Corriere, elogiando uno stile espositivo, di misuratezza tutta ticinese, che aveva evitato «gli sconquassi cui, ormai, gli architetti ci stan costringendo in ogni parte del mondo». Serodine, ovvero Giovanni d’Ascona, come Testori di tanto in tanto lo ribattezza, è l’artista che Longhi gli aveva insegnato a guardare attraverso la lente di quella «potente nostalgia dei laghi e delle montagne lombarde» che pervade la sua pittura. Chissà quindi quanto sarebbe piaciuta a Testori la copertina del catalogo della mostra di Serodine attualmente in corso alla Pinacoteca di Rancate, con quel particolare ravvicinato tratto dalla grande pala della Parrocchiale di Ascona, dove si scorge il Maggia planare nel Lago Maggiore…
Le relazioni ticinesi di Testori hanno anche un altro importante epicentro lacustre: è Tenero, località poco lontana da Locarno, dove dal 1977 Mario Matasci, «enologo di razza e cultore delle cose dell’arte di razza ancor più rara e pregiata», aveva aperto una galleria, nella bella sede di villa Jelmini, con il programma di valorizzare la pittura svizzera e in particolare ticinese. È qui che Testori scopre nel 1978 il genio paesano di Giovan Antonio Vanoni, artista vissuto tra 1810 e 1886, «che si tenne stretto e con cocciuta fedeltà ai pochi chilometri e ai pochi paesi della Valmaggia dove, appunto, ebbe origine e nascita». Testori resta stregato in particolare dalla galleria dei ritratti di Vanoni, «una sorta di Fayum ridottissimo e paesano». Quasi una saga di volti che sembra annunciare la danza bondasca dei ritratti di Varlin. Nel 1981 è la volta della scoperta di un altro «genio minore», quello di Filippo Franzoni (1857-1911), uno scapigliato in terra ticinese. La mostra era stata proposta sempre da Matasci e l’inizio della recensione sul Corriere è un omaggio di sapore tutto geografico: «Quando salimmo a Tenero, il piccolo villaggio situato là oltre Locarno per visitare la mostra di Filippo Franzoni il sole dicembrino… illuminava la cara propaggine lombarda (o lombarda continuazione) con accorante dolcezza».
In anni successivi, sempre sulle colonne del Corriere, proporrà altri due artisti ticinesi, Renzo Ferrari e Samuele Gabai. Due pittori aspri, introversi, impregnati di umori di frontiera. Un saggio per Gabai, scritto nel 1986 in occasione della mostra alla Compagnia del Disegno di Milano, è segnato ancora una volta dalla fascinazione del luogo dove l’artista ha lo studio: una casa-studio visitata per la prima volta d’inverno con la neve, arroccata come «una barbarica cascina» in Val di Muggio. A Gabai Testori dedicò anche una raccolta di poesie Segno della gloria, uscita postuma, in edizione d’arte con sedici acqueforti firmate dall’artista, nel 1994, per i tipi di Rovia & Giorgio Upiglio.
Magrezza da trappista
Ma la geografia elvetica di Testori visse anche di puntate più nordiche. Come ad esempio quella che lo portò a incrociare Martin Disler, una sorta di scheggia svizzera dei Neuen Wilden berlinesi, i nuovi selvaggi che avevano riacceso le speranze, i furori e le ambizioni della pittura agli inizi degli anni ottanta. Disler era nato a Seewen, in un cantone di lingua tedesca, ma aveva uno studio alla periferia di Lugano, a Besso, in uno stanzone all’ultimo piano di un edificio storico. Quando Testori andò a visitarlo si annotò «la sua magrezza da trappista», mentre si muoveva tra le sculture in gesso «bianche, come saranno le nostra ossa il giorno della resurrezione». Per Disler scrisse l’introduzione alla mostra che si tenne nel 1987 alla Kunsthaus di Zurigo. Rispetto ai correligionari berlinesi, c’era nella sua pittura un drammatico struggimento, un senso di erosione della Storia. Disler sapeva sigillare nel furore del segno anche una grande energia riflessiva, tanto che il titolo di un articolo scritto sempre per il Corriere (Testori proponeva sempre i titoli per i suoi interventi) annunciava la pittura di Disler come «vortice di conoscenza».
E visto che il percorso nella Svizzera testoriana ha toccato Zurigo, la città da cui era partito Varlin (a parte i quadri esposti alla Kunsthaus non ci si deve lasciar sfuggire il fantastico ritratto di Hulda Zumsteg, la titolare del Kronenhalle, che ancora troneggia tra i tavoli di questo storico ristorante cittadino), è inevitabile parlare di una minima raccolta di tre poesie che Testori scrisse nel 1970, senza mai pubblicarle. Si intitola Theo e come è facile intuire è dedicata a un ragazzo. «Zurighese dai polsi di gitano», lo ribattezza. Ma dai versi si deduce che incontro e folgorazione erano avvenuti sulle sponde del Lemano. «Perché zurighese senza amore,/ il primo abbraccio che mi hai mandato/ l’hai scritto su un tramonto disperato?/ Chi t’ha confidato/ che il sangue di quell’ora/ è ciò che ho sempre più amato?».

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