Olivier Zabat

Olivier Zabat è un regista che lavora sul margine, e non solo per i temi che tocca nei suoi film, «documentari» ai quali l’etichetta in sé sta stretta ma soprattutto per l’allenamento costante che impone alla propria forma nel confronto coi soggetti che di volta in volta affronta. Mai facili, esposti a una categorizzazione che lui rifiuta mettendo al centro quell’idea di cura – su cui ama lavorare – in ogni incontro che costruisce davanti alla macchina da presa. E dunque sia che si parli di vite nelle favelas di Rio, ascoltando le storie di violenza dei giovanissimi criminali e dei poliziotti che uccidono anche loro senza legge perché sono pagati e perché pensano così di estirpare il male (Zona Oeste, 1999), che di persone che sentono le voci nelle loro teste e cercano di conciliare questo col quotidiano (Arguments, 2019), ciò che vediamo sfugge alle aspettative, anzi le respinge opponendovi l’idea di una relazione.

Olivier Zabat
Costruire una relazione con le persone è per me fondamentale, presuppone una deontologia della macchina da presa nell’avvicinarsi al mondoA Zabat il festival parigino di Cinéma du Reel, che si è appena chiuso, ha dedicato una retrospettiva all’interno di una programmazione che comprendeva anche una personale con carte blanche a Jean-Pierre Gorin, figura importante nel cinema francese di resistenza, non solo per il periodo Dziga Vertov di cui è stato protagonista insieme a Godard nel sogno (o nell’utopia) di un cinema rivoluzionario.
Zabat che è nato nel 1965 ha iniziato in un altro tempo ma la sua sensibilità è ugualmente resistente nel segno dell’ascolto, appunto, di realtà sempre sul limite, di quanto rimane invisibile o viene reso tale da una percezione frettolosa. Il progetto a cui sta lavorando ora riguarda la povertà a partire dal concetto di accoglienza indistinta che significa sostanzialmente quelle situazioni in cui la cura non viene negata a nessuno che è in difficoltà per dei pregiudizi di tipo burocratico o «morale» o una gerarchia di qualsiasi tipo. Si tratta di migranti e anche di persone con dipendenze o che si sono trovate all’improvviso travolte dal mondo. «Oggi la tentazione di mettere la realtà in caselle è molto forte, ma questo non permette di coglierne la molteplicità e le contraddizioni. Osservare l’altro significa costruire una relazione che è anche una continua riflessione sulle immagini» dice Zabat.

L’idea di relazione appare centrale nei suoi film. Come lavora a questo che è poi uno dei principi fondamentali del documentario?

La relazione presuppone una deontologia della macchina da presa nell’avvicinarsi all’altro che diviene centrale quando come nel mio caso il paesaggio con cui ci si confronta è quello umano. La costruzione di questo rapporto entra nell’esperienza del film, la caratterizza. E in qualche modo interroga ogni volta la libertà dell’artista. Prendiamo un film come Zona Oeste: lo sviluppo della relazione con i suoi protagonisti, dei criminali giovanissimi nelle favelas brasiliane, o due poliziotti che compiono atti criminali pensandosi come dei giustizieri o dei redentori, imponeva un equilibrio nella gestione degli incontri che ho trovato progressivamente nel dispositivo della loro narrazione. Volevo raggiungere una parola che fosse collettiva mantenendo una sua singolarità, una dialettica che di queste persone mostrasse la fragilità – la stessa di un film girato clandestinamente e in una situazione di rischio. Non potevo mostrare l’identità delle persone che parlano, il dispositivo della parola compensa questa negazione nell’immagine cercando i paradossi di quella situazione in una verità e nel suo contrario, che nega continuamente le apparenze. Se pensiamo ai poliziotti, indossano l’uniforme ma quanto dicono ne è la negazione. A un certo punto anche io sono entrato in queste geometrie, quando mi hanno accettato e hanno deciso che ero degno di rispetto tutto era più tranquillo ma molto pericoloso perché a quel punto sin aspettavano che rispettassi i loro codici.

La parola torna ma in modo diverso nell’altro film brasiliano che ha girato, «La femme est sentimentale», in cui la conversazione sulla spiaggia con due giovani donne evoca quanto vediamo in «Zona Oeste», una realtà violenza e molto machista.

In un certo senso quel breve film ne è la conclusione, lì c’è una relazione frontale con le due protagoniste che sono giovanissime e hanno vissuto esperienze molto dolorose. La loro parola esprime in modo molto sintetico quando vediamo nell’altro film, che è l’universo maschile della «virilità» da loro evocato. Cercano di sopravvivere e hanno un legame ambivalente con quel mondo.

Questo rapporto parola-immagine, oltre ai casi qui citati, è ricorrente nei suoi film. In che modo lo costruisce?

Il modello televisivo non mi interessa, non ho nessun interesse alla parola come veicolo di informazione; è la forza di ciò che le parole possono mettere in scena a interessarmi. Ci può essere un’ambiguità, che in film come Zona Oeste è ancora più forte visto che riguarda l’auto-finzione; ogni volta cerco di accordare a questa parola un’esperienza cinematografica che lavori secondo il contesto. E che sappia coglierne la vita, la forza, la dignità. Le diverse figure dei miei film hanno ciascuna una parola che deve poter vivere, che permette le scelte etiche, che interagisce con i soggetti rispettandoli, senza imporgli una rappresentazione in modo autoritario. Quando ho lavorato sulla psichiatria in Arguments, ho notato che il cinema spesso esprime un accademismo su questo, da cui ho cercato di liberarla restituendo alle persone con cui mi confrontavo una diversa visione e libertà.