Old, vecchio. Dietro al titolo ingannevolmente semplice e a un manifesto che sembra la versione horror di una banale commedia estiva si nasconde l’ultimo lavoro di uno dei pochi autori americani che oggi lavorano ancora sulla dimensione filosofica del cinema di paura. High concept, come i suoi film migliori, anche se non necessariamente tra i più riusciti, l’ultimo M. Night Shyamalan apre con un classico del pop- comico da spiaggia, in versione caraibica: l’allegra famiglia che arriva in un lussuoso resort verdeggiante di palme e punteggiato dei colori vivaci dei cocktail che accolgono tutti i visitatori, insieme al sorriso untuoso del manager: «benvenuti nella nostra versione del paradiso».

Eccetto che la famiglia Capa (nonostante il nome che rimanda a quello del regista di It’s a Wonderful Life) è tutt’altro che allegra, e la vacanza degenererà presto in un inferno. Prisca (Vicky Krieps, la scoperta fiamminga di Paul Thomas Anderson) e Guy (Gael Garcia Bernal) stanno per separarsi e intendono annunciarlo ai figli -Maddox (Alexa Swinton), di undici anni, e Trent (Nolan River), di sei- dopo questo ultimo viaggio insieme.

Più sgamati di quello che pensano mamma e papà, i bambini si abbracciano con apprensione quando li sentono litigare a bassa voce dall’altra parte del muro di pregiato legno tropicale. In quest’atmosfera di falso idillio, il giorno successivo i Capa accolgono con riluttante entusiasmo l’invito del manager a visitare in una spiaggia meravigliosa il cui segreto è riservato per clienti specialissimi. È M. Night Shyamalan stesso a guidare il pulmino che li porterà, insieme a un’altra famiglia, a una cala sul mare, circondata da montagne inaccessibili e da una barriera di coralli bianchi.

 Ed è lì che il film di Shyamalan finalmente entra al cuore della sua fonte, la graphic novel francese di Pierre Oscar Levy e Frederick Peeters, Sandcastle, storia di un gruppo di turisti intrappolati su una striscia di sabbia dove il tempo scorre in un drammatico fast forward.

La fissità del luogo contrapposta al vorticoso incalzare di decenni che si consumano nel giro di minuti, a vista d’occhio. I bambini che si trasformano in adolescenti, le rughe che si infittiscono sui volti degli adulti, i capelli che ingrigiscono, i tratti -buoni e cattivi- di carattere che si fanno più pronunciati, mentre liti e disaccordi scompaiono, (come la cicatrice dell’estrazione improvvista di un tumore o lo sfregio da coltello sul volto di un personaggio) risucchiati dal flusso della vita ipercompresso…

È facile capire come i temi e le metafore della graphic novel di Levy e Peeters abbiamo catturato l’immaginazione di Shyamalan. In questo senso, Old è forse uno dei suoi film concettualmente più «puri» dai tempi di The Sixth Sense e Unbreakable. Ma la purezza metaforica e la geniale limpidità formale dei suoi film più belli, qui si aggroviglia in intermezzi drammatici troppo cervellotici che affollano la trama, detour narrativi che poi non vanno da nessuna parte, battute insulse e un uso della macchina stranamente poco indovinato per un regista la cui precisione dell’occhio e del ritmo ha spesso ricordato quelle di uno dei suoi autori preferiti, Hitchcock. Dopo il gelo da Siberia che ha seguito il gigantesco flop di Lady in the Water, come liberato dall’aura di reverenza che aveva circondato i suoi lavori precedenti, Shyamalan non ha esitato a introdurre una dimensione simpaticamente camp nei suoi lavori, incoraggiata probabilmente dalle collaborazioni con Jason Blum. 

È un tocco che torna a tratti anche qui, e che tende a provocare risate involontarie, ma soprattutto una confusione tonale che non giova al film e che ne offusca alcune delle parti migliori. Quelle che uno immagina come trovate sardoniche nella graphic novel (l’invecchiamento precoce include non solo morti ma anche un parto; l’effetto dell’abbassamento della vista e dell’udito, in una scena d’azione…) e che filtrate dalla marca struggente caratterizza l’esistenzialismo di Shyamalan, avrebbero potuto diventare scene bellissime, qui non trovano il tempo di “respirare”, schiacciate come la dimensione temporale in cui sono fatalmente intrappolati i personaggi.