Georgia O’Keeffe, “Ram’s Head, White Hollyhock-Hills”, 1935, New York, Brooklyn Museum

 

«Al di là del profondo attaccamento alla sua personalità, sento che ha contribuito a plasmare il mio universo artistico». È una affermazione importante, questa, che Georgia O’Keeffe confida in una lettera a Hanry McBride nel 1942, evocando la figura del marito, il fotografo avanguardista Alfred Stieglitz. L’incontro tra i due avviene nel 1916, tramite Anita Pollitzer, ex compagna di classe di Georgia al Columbia Teachers College di New York. A lei O’Keeffe, allora insegnante d’arte nella Carolina del Sud, affida la missione di presentare a Stieglitz una propria serie di carboncini dal generico titolo Specials. Sono forme astratte, sensuali, intime, che colpiscono Stieglitz nel profondo. «Finalmente una donna su carta», esclama, e all’insaputa dell’autore ne inserisce alcuni disegni in una mostra collettiva organizzata nella sua galleria newyorchese sulla Quinta Strada.
Fin dalla sua fondazione, nel 1905, la galleria di Stieglitz (The Little Galleries of the Photo-Secession, poi nota con il suo numero civico «291») è stato il primo e a lungo l’unico luogo americano a ospitare le avanguardie europee, principalmente francesi. Dopo aver esposto Rodin, Matisse, Cézanne, Picasso, Picabia e Brancusi, la galleria viene riconosciuta come l’epicentro americano dell’arte moderna attraverso le sue mostre e le pubblicazioni della rivista «Camera Work». Nel 1912 è Stieglitz a tradurre per la prima volta in inglese un estratto de Lo spirituale nell’arte di Kandinsky. Questa scelta chiarifica il posizionamento teorico dell’americano, più propenso al colore di Matisse che al sezionamento formale di Picasso. Stieglitz, come Kandinsky, si fa paladino di un’arte capace di esprimere la dimensione spirituale del mondo visibile, attraverso un percorso che lo avvicina al trascendentalismo di Emerson e Whitman. Di qui l’esigenza di promuovere un’arte americana emancipata dalle influenze europee e di elevare anche la fotografia al rango di espressione artistica d’avanguardia.
O’Keeffe scopre la galleria di Stieglitz nel 1908, durante i corsi di William Merritt Chase all’Art Students League di New York. Qui scopre i disegni di Rodin, dalla grande libertà formale ed erotica, che ispireranno dieci anni più tardi una serie di nudi, tra le rare rappresentazioni della figura umana nella sua opera. I paesaggi, astrazioni ad acquerello prodotti principalmente in Texas dal 1916, confermano che, come Stieglitz, O’Keeffe preferisce il colore alla forma, il «modello interiore» al ragionamento analitico. Dal 1923 fino alla sua morte, nel 1946, Stieglitz dedica ogni anno una mostra all’opera di O’Keeffe. Per la sua carica emotiva e radicalità simbolica, di lei dice che «incarna lo spirito della 291». Oggi è a questa galleria, e alla sua importanza come luogo dialettico tra le avanguardie europee e americane, che si dà una giusta attenzione per la prima grande retrospettiva francese di Georgia O’Keeffe, curata da Didier Ottinger al Centre Pompidou (fino al 6 dicembre; catalogo, pp. 272, e 42,00).
Nonostante la sua ricerca di una via autonoma e irriducibilmente americana all’arte, non possiamo pensare l’opera di O’Keeffe senza ricordare che tra il 1905 e il 1906 si è intrisa di nozioni Art Nouveau al Dipartimento di Design Decorative presso l’Art Institute di Chicago (all’epoca roccaforte americana ed epicentro del movimento Arts and Crafts inglese). Così come importantissima e decisiva è la lezione compositiva appresa da Arthur Dow, che formatosi all’Académie Julian a Parigi e nei circoli estivi di Pont-Aven, e assorbita la lezione grafica giapponese, torna a Boston per insegnare la decantazione delle forme attraverso la selezione, l’eliminazione e l’enfasi del dato sensibile. In accordo con il suo insegnamento, O’Keeffe cerca forme che riflettano le sue idee, traducano le sue emozioni e facciano del registro naturale una fonte privilegiata di ispirazione.
Altro fondamentale incontro con l’Europa avviene nel 1917, quando O’Keeffe scopre le sculture di Constantin Brancusi esposte alla Brummer Gallery di New York. In un’osservazione a Paul Strand, esprime la sua ammirazione per un’opera così perfettamente equilibrata tra astrazione e realismo. O’Keeffe vi trova il proprio metodo, e a ragion veduta molto più tardi McBride scrive: «Sembra che ci sia un crescente desiderio (…) di realizzare nella pittura ciò che Brancusi fa nella scultura: riducendo tutto al suo principio essenziale, levigando le superfici fino a farle assumere un’eleganza rigorosamente igienica». Il riconoscimento europeo più importante viene proprio da Brancusi, che il 4 marzo del 1926 loda il lavoro di O’Keeffe e riferisce a Stieglitz: «Qui non c’è imitazione dell’Europa; è una forza, una forza emancipatrice».
Nel riassumere il suo rapporto con l’astrazione, l’artista afferma: «Sono sempre sorpresa di come le persone separino l’astrazione dal realismo. La pittura realistica non è mai buona se non è astrattamente riuscita». Come bene osserva Ottinger in catalogo, l’astrazione è per O’Keeffe un mezzo, mai un fine. Astraente più che astratta, la sua pratica è fedele all’etimologia latina del termine, cioè all’azione di estrarre, separare, allontanare; un processo più che uno stato, una tensione più che una forma fissa. E nel 1925, per la prima volta, sottopone i suoi fiori a un primo piano che satura lo spazio della tela. Questo avvicinamento avviene per via di una duplice influenza: del nuovo modo di osservazione fotografica e dell’attenzione rivolta ai febbrili fermenti costruttivi di una città moderna come New York. O’Keeffe è in prima linea nella rivoluzione artistica della nuova generazione di fotografi come Strand, Weston, Adams, e ha compreso la lezioni del blow-up quale intensificatore formale ed emotivo dell’immagine. Un’intensificazione alla quale aspira anche l’artista, per far corrispondere la sua arte alla fenomenologia della città moderna. «Negli anni ’20, a New York, da un giorno all’altro sembravano crescere in modo spettacolare edifici enormi. In quel momento vidi un quadro di Fantin-Latour, una natura morta di fiori che trovai davvero bella, ma capii che se dipingevo fiori così piccoli nessuno mi avrebbe prestato attenzione perché ero sconosciuta. Così ho avuto l’idea di espanderli come enormi edifici in costruzione».
È questa una dichiarazione rilasciata nel 1962 che serve ad allontanare l’ossessiva interpretazione erotica che i critici attribuivano ai suoi fiori, interpretazione sicuramente fomentata anche dalla serie fotografica di una giovane O’Keeffe nuda, che Stieglitz presenta nel 1921 non senza spirito di provocazione al puritanesimo imperante. Nondimeno l’avvicinamento dell’artista al suo oggetto non assomiglia a quello di un fotografo. Lungi dal rivelare maggiori dettagli, il processo di ingrandimento di O’Keeffe riduce l’oggetto all’essenziale, lo spinge verso una manipolazione estrema. E questo modo di introdurre l’astrazione all’interno delle linee del reale solo il pittore può realizzarlo. Con sensibilità poetica ritrae i palazzi di New York come dei canyon, umanizza i paesaggi desertici del Nuovo Messico, ed è attenta al ciclo vitale combinando una foglia e una conchiglia, un teschio e un fiore. L’astrazione si fa sempre più stringente, poi, tra il 1950 e il 1960, quando intensifica la sintesi formale in chiave sempre più spirituale e mistica. Il fascino per una porta che si apre sul patio della sua casa nel deserto dà origine a variazioni sul tema di luci e ombre, pieni e vuoti: principi, questi, che hanno nutrito senza posa la sua intera e lunga vita.