Io e Pietro eravamo ormai lontani, ma gli echi del casone di musica ci arrivavano attraverso Augusto e Saverio che gravitavano sempre più su Milano, dove vivevo. Pietro, dopo aver lasciato il quartetto Italian piano quartet con cui già faceva tournée in mezzo mondo, aveva deciso di diventare direttore d’orchestra. Covava quel desiderio da tempo. L’incontro con Yuri Termikanov, a San Pietroburgo, gli diede un ulteriore impulso. Era una sfida che solo un indomito come lui poteva pensare di vincere e nel cui percorso lo hanno aiutato insegnanti come Nicola Samale, Donato Renzetti, Piero Bellugi, Temirkanov stesso e gli incontri preziosi con Luigi Alva, Michele Dall’Ongaro, Fabio Luisi. Allora, agli inizi, fu un salto nel buio.

Questa idea di lasciare qualcosa di certo per un assoluto incerto ha molto a che vedere con il fare musica. Suonare è una pratica che imprime un certo modo di vivere. Ogni volta che si affronta un brano, che lo si conosca o no, si accetta una sfida e un confronto con se stessi e con chi ascolta. Ogni lezione, ogni prova, ogni concerto espone a un giudizio e a una verifica. In ogni esibizione, grande o piccola che sia, si sa che c’è un’incognita. Suonare significa vivere in un divenire costante, in un eterno mettersi alla prova e misurarsi, ascoltarsi, giudicarsi senza mentirsi, tanto non serve, anzi è dannoso. Quando tutto ciò si apprende da piccoli, si interiorizza un modo di vivere e si diventa combattenti per sempre. Si impara a rialzarsi, quando si cade.

L’estate successiva al proprio diploma, Augusto aveva girato l’Italia con un’orchestra che faceva quella che in gergo si chiama spedizione punitiva, ossia una tournée con ritmi serrati dove si suona di tutto, dal balletto all’opera. In autunno era entrato nella banda civica del comune di Milano.
Saverio, finite le medie, non era stato ammesso al conservatorio di Parma, vai a capire perché, e così aveva tentato l’ingresso in quello di Milano dove lo avevano preso. Capitava, quindi, che a turno e ogni tanto Augusto e Saverio dormissero da me, su una poltrona letto in cucina perché nell’altra stanza metà dello spazio era occupato dal mio Bechstein a coda che avevo trovato, usatissimo ma con un timbro straordinario, da un rivenditore di Livorno.

Arrivando a Milano, Saverio aveva incontrato un maestro di corno con cui si trovava finalmente bene ed Elfriede Demetz, un’insegnante di solfeggio che lo seguiva come un figlio e lo preparò in modo tale che all’esame prese dieci in tutte le prove. Nostra madre la adorava. Io per vivere insegnavo educazione musicale alle scuole medie, ma non mi piaceva. Suonare era diventato difficile perché nel bilocale milanese dai muri di carta velina dovevo rispettare orari e l’ostilità dei vicini di casa che non gradivano sentire studiare Mozart, Franck o Bach per alcune ore al giorno. Mentre io cercavo di capire se la musica era il mio destino e i miei fratelli, ognuno a modo suo, costruivano la loro strada, accadde l’inaspettato.

Era l’alba del primo marzo. Squillò il telefono. Era la Luciana. Parlava con un filo di voce. Nella notte Augusto aveva avuto un incidente. Non era grave, ma… era in chirurgia maxillo facciale. Tremai. Le cose erano andate così. Nella notte lui e Saverio tornavano a casa dai rispettivi impegni. Augusto guidava un furgone usato che a Giacomino non era mai piaciuto perché gli ricordava un carro funebre, Saverio lo seguiva in motorino. La strada che porta al casone è tutta una curva costeggiata da campi. Le ultime due svolte sono molto insidiose perché a gomito e dopo un rettilineo. La penultima fu fatale. Dalla parte opposta arrivava un’auto a tutta velocità che perse il controllo e si schiantò diritta contro il muso del furgone che finì fuori strada. Augusto, che non indossava la cintura di sicurezza perché non erano obbligatorie e non tutti i mezzi le avevano, sbatté il viso contro il volante. Saverio fece appena in tempo a frenare. Quando corse davanti al furgone vide il muso dei veicoli accartocciati. Augusto era seduto sulla riva del fosso. Sputava i denti che gli erano saltati e, battendo una scarpa sull’erba, diceva: «Saverio non potrò più suonare, mai più».

Aveva da poco compiuto ventun anni, dedicato due terzi della sua esistenza alle note, la mandibola con una frattura scomposta e perso i quattro incisivi inferiori. Uno strumentista a fiato, senza denti davanti non può suonare. Nello specifico, un oboista appoggia l’ancia proprio sugli incisivi inferiori. Nessuno di noi pensò per un solo attimo che tutto era finito. Per i tre mesi in cui la mandibola di Augusto doveva restare bloccata, la Luciana gli preparò frullati di ogni genere perché lui poteva nutrirsi solo succhiando da una cannuccia. Frullava di tutto, frutta, verdura, carne, anolini, uova, legumi, insalata, culatello. Appena la frattura si ricompose, e in attesa di impiantare i denti provvisori, mio fratello tentò di suonare legandosi un fil di ferro ai canini. Quando, quattro mesi dopo, poté riprendere a studiare regolarmente, tutto era da ricostruire, labbro, callo del labbro, sensibilità, appoggio, fiato, agilità, tecnica e, insieme, contatti, concerti, audizioni. Era come ricominciare quasi tutto da capo. Poiché il giorno gli serviva per studiare e tornare quello di prima, cercò un lavoro notturno e andò a distribuire il pane per un fornaio. Si alzava alle tre, tornava a casa alle otto e di giorno suonava. Se gli capitava un concerto, passava direttamente dal teatro alla panetteria e tutto ciò per due anni. Poco dopo anche Saverio si unì a quel mestiere, in attesa di diplomarsi. Il giorno dell’esame, che coincideva con il suo compleanno, doveva essere a Milano alle sette e cercò qualcuno che lo sostituisse per quella notte. Alle quattro, mentre dormiva, sente squillare il telefono. Era il fornaio. Il sostituto non si era presentato, così Saverio dovette alzarsi e, finito il di distribuire il pane, correre a Milano dove lo aspettava la commissione d’esame.

Da allora gli inciampi, i successi, le delusioni, i cambi di vita per ognuno di noi sono stati tantissimi. Ora Pietro insegna viola al conservatorio di Milano, dirige in tutto il mondo, è responsabile dell’orchestra dell’Accademia del teatro alla Scala dal 2008. Augusto dal 2004 è secondo oboe con obbligo di corno inglese nell’orchestra del teatro alla Scala e se ripensa alla sua rinascita gli vengono in mente due nomi per lui importanti, Paolo Pollastri e Francesco Di Rosa, primi oboi nell’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, a Roma. Saverio è macchinista teatrale. Dopo aver lavorato dal 1999 al 2011 al teatro Piccolo di Milano ricorda Luca Ronconi e Mariangela Melato come fra gli incontri più importanti della sua vita lavorativa e umana. Ora è al teatro Grande di Brescia. Giacomino, che non è più con noi da oltre dieci anni, ha fatto in tempo a vedere quasi tutto ciò.

La Luciana non tiene più il conto di tournée e spostamenti perché quel che doveva fare l’ha fatto. È contenta di prepararci un piatto di anolini quando andiamo a trovarla e di vedere la tavola di nuovo nel caos di un tempo. Io ho scelto di lavorare con la scrittura e non suono quasi più, ma il Bechstein vive ancora con me. Mi ha accompagnato in ogni trasloco e non è stato facile, essendo un bestione di due metri e mezzo. Non me ne separerò mai perché rappresenta la fratellanza e la musica. Entrambe, quando ti entrano nel sangue, ti scorrono dentro per sempre, respirano con te, qualunque cosa tu faccia.

4.Fine

Le precedenti puntate sono state pubblicate il 3, il 10, il 18 agosto.