Chi ha parlato con Matteo Renzi lo descrive euforico. Come ai tempi spumeggianti della sua ascesa politica. Se qualche dubbio su aprire la crisi lo aveva avuto negli ultimi giorni, dopo la moral suasion del Quirinale, ieri l’uscita di Conte lo ha galvanizzato. Quell’aut aut «se esci dal governo mai più coalizione insieme» lo ha spinto con ancora più convinzione al muro contro muro: e ha tolto di mezzo la soluzione che il rottamatore non voleva, ma a cui rischiava di doversi adattare: il Conte ter. «Lo ha cancellato lui con quelle parole. Se ha preso questa linea, evidentemente è convinto di avere i numeri e va bene così, si chiama democrazia parlamentare e noi si va all’opposizione», spiega il capo di Italia Viva, convinto che un governo aggrappato a una truppa di responsabili avrà comunque «vita breve». «Auguri al governo Conte- Mastella».

In ogni caso oggi è il giorno delle dimissioni più annunciate della storia. Nel pomeriggio Renzi con le ministre Bellanova e Bonetti e il sottosegretario Scalfarotto, col favore di decine di telecamere, uscirà solennemente dal Conte bis. Con una serie di motivazioni che, dopo l’ok al Recovery Plan riscritto sotto dettatura di Italia Viva, possono apparire pretestuose. Una di queste sarà il no del premier al Mes, ma la critica a Conte sarà a 360 gradi, dalla scuola alle grandi opere bloccate: «Nei prossimi due anni non possiamo vivacchiare», ha anticipato Renzi ieri notte a Castabianca, mentre era in corso il consiglio dei ministri.

Il succo del Renzi pensiero è il seguente: «Conte è immobile, non è in grado di gestire una fase storica come la spesa dei 209 miliardi del Recovery», spiega più di un parlamentare renziano. «Chiamateci come volete: cattivi, pierini, noi vogliamo che questo Paese sia gestito e governato per bene. Pensiamo che questo Paese meriti un metodo e un merito di governo più serio di quello visto fin qui», dice Luigi Marattin, mente economica del partito. «Conte non è in grado di realizzare le cose scritte nel piano, questo è il punto», rincara un alto dirigente di Iv. La ministra Bellanova, prima di entrare ieri sera al consiglio dei ministri, ha voluto comunque mettere a verbale che il nuovo recovery «ancora non è soddisfacente».

Alla fine il succo di questa crisi è nella convinzione che Conte sia così «inadatto» e «immobile» e che, pur di cacciarlo, va bene anche una crisi al buio in piena pandemia. Perchè tanto «non si va al voto, si fa un altro governo». L’obiettivo resta lo stesso da settimane: non uno strapuntino in più, non le famigerate «poltrone» che Renzi ogni due minuti nega di volere. Ma un governo di larghe intese, che lasci fuori solo la Meloni e «quelli di Di Battista», tirando dentro il grosso dei 5 stelle. Il sogno dei renziani è coinvolgere nella gestione del recovery Mario Draghi, «l’unico che può tirare fuori l’Italia da questa situazione», ripetono in coro. E fanno notare: «Matteo lo cita da settimane, lui non ha mai smentito. Siamo sicuri che se a crisi aperta verrà fuori il suo nome ci staranno tutti, compresa la Lega». E il Pd che da giorni nega questa ipotesi? «Il Pd non dirà mai no a Draghi, ma neppure a un governo con Marta Caratbia o Cottarelli». «Nessun atto irresponsabile, quello che noi stiamo facendo si chiama politica», scrive Renzi nella sua e-news.

Quanto a Conte, il racconto della truppa renziana è molto diverso da quello di una crisi improvvisa, di una coltellata a freddo: «Da luglio Matteo gli chiedeva un salto di qualità, un patto di legislatura. Ci ha trattato in modo arrogante, ci ha sputato in faccia». E ora «ha segato il ramo su cui era seduto», gongolano i pasdaran italovivi. Convinti che il premier li abbia di fatto accompagnati alla porta. Rendendo la vita più facile a chi ieri ha dovuto rispondere ai ripetuti appelli arrivati dal Pd a rimettere insieme i cocci, a evitare colpi di testa. Appelli pubblici e privati, offerte di ministeri di peso. Renzi ha avuto la risposta pronta. E ai suoi parlamentari ha ripetuto, per evitare dubbi e tormenti: «Fidatevi, non si va a votare».