L’orazione/libazione annuale di Mansion House, nella City – in cui il Cancelliere dello Scacchiere arringa una platea in tight sullo stato dell’economia britannica, – doveva esserci la settimana scorsa. Ma era stata cancellata dopo la tragedia di Grenfell e spostata a ieri mattina. Anche se in chiave decentemente ridotta, è stata la prima uscita di rilievo per Philip Hammond, il ministro delle finanze remainer tenuto ai margini durante la recente (fallimentare) campagna elettorale di Theresa May perché inviso agli hard-brexiters conservatori che garantiscono il residuale sostegno alla premier.

ORA PERÒ HAMMOND si sente libero abbastanza da indicare una linea economica in netta dissonanza con il programma elettorale dei Tories, costato loro la maggioranza assoluta che già avevano in tasca e fortemente orientato a rischiare di uscire senza alcun accordo. Al suo posto, il flemmatico cancelliere ha propugnato una British Exit che salvaguardi il lavoro (dichiarazione copiata e incollata dalla posizione del Labour) e la prosperità, che mantenga il paese nell’unione doganale finché l’accordo non sarà stabilito in modo da evitare così dazi per le esportazioni, la cosiddetta cliff-edge: il tuffo giù dalla china e in braccio alle bizantine regole tariffarie della Wto. Hammond soprattutto ha parlato di «gestire» il flusso migratorio anziché di cercare di fermarlo, oltre che di allentare la morsa dell’austerity. Il golfo con May, Gove, Johnson & Co. non potrebbe essere più ampio. A dargli man forte, il governatore della Bank of England Mark Carney: dura o morbida che sia, la Brexit sarà difficile e avrà un impatto sui salari. Anche per questo ha annunciato di non voler toccare i tassi d’interesse.

LA DUTTILITÀ di Hammond incontra il favore delle imprese e delle banche. Nella presciente certezza che i due anni pattuiti non basteranno per nulla a finalizzare l’accordo (si ritiene ce ne vorranno perlomeno cinque) anche i vertici dell’industria automobilistica gli danno ragione. Tra i massimi esportatori nazionali, hanno a loro volta invocato chiarezza sul rischio di essere soggetti a dazi già durante le trattative.

IL COMPITO DEI NEGOZIATI, iniziati lunedì fra David Davis e Michel Barnier e da compiersi entro il 29 marzo 2019, è monumentale: ci sono più di quarant’anni di legislatura europea da districare e rivedere. Fin dall’inizio si è palesata la debolezza del Brexit secretary Davis nei confronti di Barnier: la Gran Bretagna aveva insistito con il voler dibattere i termini del divorzio contemporaneamente al nuovo accordo commerciale, cosa sempre esclusa da Bruxelles, e nel dare priorità ai confini nordirlandesi, mentre le cose ieri sono andate secondo l’agenda europea.

LA FRAMMENTAZIONE del sostegno dei conservatori a Theresa May è ormai l’unica cosa evidente di questo frangente tanto critico quanto incerto della politica britannica. La premier non è ancora riuscita a ufficializzare il sostegno dei lealisti nordirlandesi del Dup (che avrà serie ricadute sul processo di pace con i repubblicani del Sinn Féin) e si appresta a presentare un Queen’s Speech – la cerimonia di apertura del parlamento, prevista per oggi – senza aver ancora ufficializzato il proprio governo di minoranza. Il partito nordirlandese addebita questo ritardo ai Tories. E se Theresa May non riesce a negoziare con un partito che sta tutto dentro a un autobus, figuriamoci la British Exit.