La fiducia c’è ma risicata, 156 voti raggiunti grazie all’appoggio di due forzisti, l’ex fedelissima del Cavaliere Maria Rosaria Rossi e Causin. Arriva a un minuto dalla chiusura e vota sì anche l’ex 5S Ciampolillo sul quale era intervenuto l’amico Beppe Grillo ma anche, a sorpresa e mollando Renzi, il socialista Nencini. I renziani non si presentano alla prima chiama e si astengono alla seconda. Un po’ meglio lo scarto, altro dato rilevante: 14 voti. Non pochi ma neppure abbastanza da permettere al governo di dire che ce l’avrebbe fatta anche col no dei Iv. Conte è in sella ma traballante.

IL VERDETTO ARRIVA dopo una giornata di voci che si rincorrono. Il senatore a vita Carlo Rubbia arriva, non arriva, è in aereo, no, non è partito. Niente da fare: intervento agli occhi. Monti scioglie la riserva, ma la scelta di votare la fiducia non sorprende nessuno. Parla Nencini, i capannelli di fronte agli schermi sfidano ogni divieto di assembramento. È considerato uno degli indecisi, suspense elevata.

Non la scioglie. Sembra più sul negativo, invece vota sì. I conti restano bassi. Raggiungere la maggioranza assoluta è una chimera che nessuno insegue. Ma bisogna almeno avvicinarsi o proseguire sarà un’impresa. Destinata a diventare più ardua via via che si avvicinano il semestre bianco e la certezza di non rischiare più le maledette elezioni anticipate.

CONTE È PIÙ RILASSATO in pubblico che in privato. «Rischio di uscire ammaccato», confida. Lo rassicurano da palazzo Chigi, con le stesse notizie che vengono sussurrate ai giornalisti: «Arrivano 6 voti: 3 da Fi, 3 dal Misto». La giornata politica ruota intorno a quei 6 noti, ignoti al grande pubblico. Che fa Mario Giarrusso? Si diverte: «Farò la cosa giusta. Qual è lo scoprirete solo quando voterò». Voterà no. E Tiziana Drago? Nemmeno lei si pronuncia ma a basta il tono avvelenato col governo. Ma soprattutto, ci sono davvero i 3 transfughi azzurri? Gli usignoli di Palazzo Chigi confermano: «Ci sono, ci sono». Hanno quasi ragione.

QUESTA GIOSTRA impazzita che volteggia intorno al voto di 3 o 4 senatori è comprensibile sul piano psicologico e mediatico ma poco sensata su quello politico. Che la maggioranza sia di 157 voti con i senatori a vita o di 155 la sostanza è la stessa. Conte ottiene la fiducia, perché le chiacchiere della destra sulla diversità di trattamento riservata nel 2018 a Salvini, quando chiedeva l’incarico senza maggioranza, e a Conte oggi, sono assurde e infondate.

Affidare un incarico è cosa ben diversa da un parlamento che conferma la fiducia senza maggioranza assoluta e dovrebbero saperlo bene proprio i leader della destra, dal momento che Berlusconi, nel 2010, restò in carica con 314 voti contro 311 a Montecitorio. Ma se Salvini e Meloni fingono di ignorare che il parlamento è sovrano, sul Colle non ci sono amnesie del genere.

Gli scogli sono altri. Oggi stesso Conte riferirà al capo dello Stato e dovrà dirgli come pensa di procedere: se con il muro contro muro, nella speranza di portare via nelle prossime settimane qualche senatore a Iv e a Fi, oppure se aprire un dialogo con gli stessi due partiti, pur dagli spalti dell’opposizione. È ovvio che il Quirinale preferisce la seconda ipotesi ma la scelta, con la fiducia delle Camere, sta al premier. Sulla carta Conte potrebbe anche optare per le dimissioni e la costituzione di un nuovo governo. Con questi numeri sarebbe probabilmente la strada più consigliabile, quella che maggiormente faciliterebbe la chiamata dei Responsabili e la più gradita al Pd. Ma resta la più invisa a palazzo Chigi.

POI C’È LA VERA sconfitta subìta negli ultimi due giorni in aula. Responsabili, costruttori, volenterosi: comunque li si chiami non si sono quasi manifestati. L’attesa con la quale la maggioranza ha guardato sino all’ultimo secondo all’Udc e a defezioni da Iv non era giustificata solo dall’utilità di contare su qualche voto in più. Era politica, non aritmetica.

Si trattava e si tratterà nelle prossime settimane di avere a disposizione un’area politica che consenta di parlare di allargamento della maggioranza, restituendo dignità alla fiducia rabberciata ieri. Oggi non c’è. Forse spunterà nei prossimi giorni, come spera Conte. In caso contrario per il Pd la situazione diventerà poco sostenibile.

INFINE IL «RAFFORZAMENTO del governo» o rimpasto che dir si voglia. Conte vuole chiudere la partita presto, entro gennaio, modificando la squadra il meno possibile. Il Pd vuole un Conte ter, di fatto se non di nome: è una partita tutta aperta. La crisi è finita ma tutt’altro che risolta.