Inizia già fuori dalla Felsenreitschule lo spettacolo immaginato da Achim Freyer per la prima volta di Oedipe di Enescu al festival di Salisburgo. All’ingresso un profetico nastro rosso benda gli occhi delle statue sotto cui sfila il pubblico, accolto accanto alla porta d’entrata anche da una torreggiante opera plastica di Freyer, Complesso di Edipo, spigoloso conglomerato verticale di pezzi multicolori di scenografia scartati dall’allestimento.

FRA IL PUBBLICO si confondono, anche nell’intervallo, in costumi neri da bautte postatomiche, i coristi che poi prenderanno posto sulla scena. Freyer sfrutta il passo orizzontale, quasi processionale dell’opera, per sviluppare lungo tutto il palcoscenico l’ipnotica narrazione dei quattro ambiziosi, fascinosi atti musicati dopo una lunga gestazione da Enescu sul raffinato libretto di Edmond Fleg. Oedipe, nata a Parigi nel 1936 ma pensata già intorno al 1908 e ultimata negli anni ‘20, è la sola opera a saldare in un unico percorso Edipo re e Edipo a Colono, chiamando il pubblico a riflettere sull’intero arco di vita del protagonista.

Edipo, che ha parte centrale nel canto in tutti e quattro gli atti, è un antieroe la cui vicenda è gravata dal peso di un crimine deciso dagli dei senza possibilità di difesa o riscatto, se non il profondo credo nell’umanità, premiato con una luminosa catarsi finale. Molto più che all’oratorio di Stravinskij Oedipe si avvicina per questo aspetto a Re Ruggero di Szymanowski, altra magnifica partitura del XX secolo che sta finalmente trovando attenzione di teatri e festival.

Fedele allo stile maturato in oltre sessant’anni di eclettica attività Freyer invade la scena di figure colorate e inquietanti: cavallette, teste mostruose, forbici, fiere, e monta sui personaggi costumi-maschera dalla marcata suggestione simbolica, a partire dal piccolo lattante che accoglie il pubblico, Edipo in fasce già macchiato dalla colpa, che poi si trasformerà nel pugilatore vittorioso e infine nel vecchio corpo del padre cieco di Antigone, raggomitolato in un ultimo anelito di vita, chiudendo, nudo sul terreno, il circolo vitale stabilito dal libretto.

INTENSA e travagliata la resa dell’ostica parte di Oedipe, cantata, sussurrata, gridata e parlata a un tempo dal basso baritono Christopher Maltman, eccellente anche sulla scena. Lo asseconda alla perfezione la lettura trasparente, rigorosamente cesellata ma mai asettica di Ingo Metzmacher alla guida dei Wiener Philharmoniker. Accanto a Maltman, fra i tanti personaggi, festeggiati con entusiasmo dal pubblico, sicuri nel canto e nella presenza scenica ricordiamo la Giocasta livida di Anaik Morel, il Laio di Michael Corvin, il Creonte di Brian Mulligan, il Tiresia glorioso per autorità se non per voce di John Tomlison. Notevole sbalzo ha dato Eve-Maud Hubeaux alla Sfinge, nella scena centrale del confronto con Edipo, la più bella dell’opera.Nel libretto di Fleg il mostro chiede di indovinare chi sia più potente del destino, che inchioda persino gli dei. Nella risposta risiede l’essenza intera dell’opera e la speranza flebile ma ancora viva che ci ha lasciato il XX secolo: l’uomo.