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Odwalla, il senso del cambiamento

Odwalla, il senso  del cambiamentoOdwalla dal vivo

Incontri/Membro e fondatore anche del gruppo Enter Eller Il musicista piemontese racconta un progetto che prevede l’inserimento costante di artisti africani residenti in italia

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 19 aprile 2014

All’inizio era danza, percussione e canto. Così potrebbe cominciare un’ipotetica «Storia dell’estetica afroamericana». Dal crogiolo del ring shout, la cerimonia segreta e rituale degli schiavi neri d’America, nasce una precisa pratica culturale che trae origine dalle tradizioni africane e si fa largo tra sofferenze indicibili nella nuova realtà. Tra i frutti maturi di questa estetica, il jazz degli anni Settanta e Ottanta, ci sono anche i recuperi in chiave moderna degli ensemble di percussioni, siano essi in forma di vera e propria orchestra (M’Boom di Max Roach) che di estemporanei momenti percussivi all’interno di formazioni quali l’Art Ensemble of Chicago.

Muovendo dal jazz d’avanguardia – con in testa anche il rock progressive e la musica contemporanea – nel 1990 Massimo Barbiero fonda a Ivrea gli Odwalla. Nel corso di venticinque anni la formazione e il repertorio subiscono un’evoluzione pur rimanendo coerentemente ancorati alla visione del leader. Per Barbiero si tratta di fare una musica che non rinunci alla propria identità, in questo caso europea, con i legami dichiarati alla cultura classica che popolano i titoli di brani e dischi. Non vi sono insomma camuffamenti da culture altre; c’è invece l’incontro, limpido e dialettico, con differenti tradizioni musicali popolari e accademiche. Se da un punto di vista compositivo in Barbiero prevale l’anima melodica, la predisposizione per il canto tipicamente mediterranea per quanto mitigata da una pensosità nordica, è in quello performativo che si realizza una politica dell’integrazione come pratica.

Sono cioè le persone, portatrici di storie ed esperienze, che si mettono in gioco relazionandosi durante la performance. Si viene a creare così uno spazio di relazioni, uno spazio sociale. A mano a mano che procede la vita dell’ensemble entrano a farne parte nuovi musicisti, in modo stabile o come ospiti provvisori, cantanti e danzatori.

L’ultima versione di Odwalla (vista e ascoltata al teatro Giacosa di Ivrea nell’ottobre 2013) è particolarmente rilevante non solo per gli eccellenti esiti musicali ma proprio per questa originale compresenza di strumenti a percussione, voci e danze che arriva a schierare sul palco fino a diciassette artisti. La musica copre un ventaglio di atmosfere che passa dall’incanto melodico di Cristiana e Per Emanuela all’atmosfera orgiastica di Cumana e Yankadi esaltate da danze acrobatiche e numeri con torce.

Massimo Barbiero (cofondatore anche del quartetto Enten Eller) è musicista attento non solo agli aspetti sonori del fare musica ma anche alle sue implicazioni sociali e politiche. Non è un caso infatti che abbia trovato il modo di prevedere all’interno dell’Open World Jazz Festival un convegno dove si è discusso, nell’ambito della presentazione del cd e dvd Ankara Live, di Africa, contemporaneità e integrazione con la presenza accanto a critici musicali anche della responsabile immigrazione del Pd piemontese Viciane Wessitscheu. A lui abbiamo chiesto di parlarci di Odwalla a partire proprio dall’inserimento di musicisti africani residenti in Italia.

«L’inserimento è iniziato sin dal 2002 nei cd Kratos e Bia dove, oltre a Billy Cobham, cominciò a suonare con noi Doussù Tourré che ancora è con noi. È poi arrivato Doudu Kwaté, anch’egli ormai fisso dal 2004, e hanno inoltre suonato e inciso Lamine Sow, Thomas Guy e Lao Kouyate alla kora, oltre a importanti musicisti jazz afroamericani il cui rapporto con l’Africa è fondamentale, come Don Moye e Hamid Drake. Ovviamente l’operazione è stata musicale, ho inserito persone, non africani (hanno suonato con noi anche indiani e sudamericani). Ma sono le persone che devono «funzionare» altrimenti non funziona la musica. Certo l’Africa ha un rapporto più naturale con il jazz, a maggior ragione le percussioni ovviamente, ma la musica di Odwalla tiene conto del jazz, della musica rock e classica da Stravinsky ai Genesis, da Eric Satie ai Farafina, da Varèse all’Art Ensemble of Chicago ovviamente e a tutta l’area dell’ Aacm. Spesso la critica però non ha colto i rapporti con tutto ciò, soprattutto nella scrittura».

E poi le voci che ormai fanno parte stabilmente dell’arca di Odwalla…

L’elemento del «canto» nella musica di Odwalla è la parte fondamentale come nei miei album in solo o nelle mie composizioni. Tutta la nostra musica sin dai primi dischi si è sempre preoccupata che oltre le tastiere (vibrafono, marimba, glockenspiel ecc.) anche la linea di un campanaccio o un tema affidato ai tamburi «cantasse»; estenderlo alle voci è stata un’evoluzione naturale, infatti avevamo già invitato cantanti sin dal primo album. Il coro di quattro voci che si ascolta nell’ultimo cd/dvd Ankara Live è il tentativo di rinforzare questo elemento sia come elemento musicale nel volume, nelle armonizzazioni e negli arrangiamenti ma anche, come dire, teatrale. Un’idea che riporta al teatro greco; il coro insomma, non solo in termini musicali, ma anche come presenza narrativa. Poi è ovvio che siamo un gruppo jazz, io amo la voce (ho inciso due cd in duo con cantanti) e quindi è per me logico chiamare cantanti con una spiccata personalità come Marta Raviglia, Gaia Matiuzzi, Laura Conti e Sabrina Olivieri e ritagliare momenti in duo con ognuna di esse pensati sulle loro caratteristiche con marimba, steel drum, vibrafono e halam, dei cordofoni africani. Si crea così all’interno delle composizioni un rapporto fuori dal tempo che può andare dal free alla «creative music» a situazioni quasi etniche o anche vicine a melodie del Rinascimento ma che negli impasti strumentali all’interno di strutture metriche dispari non danno più una chiara connotazione geografica o stilistica. E questo è l’obiettivo: cercare un’estetica «fuori dal tempo» e dai «tempi». L’iconografia di un gruppo di percussioni fa in fretta a trasformarsi in spettacoli da circo o peggio ancora ad esser percepita come world music, new age… quattro sonagli e due concetti tra lo spirituale e il post-freak… e si rischia di essere confusi con un operazione kitsch di cui questo paese è pieno.

Per finire con l’aggiunta dell’ultimo tassello: la danza.

Lavoriamo con la danza da dieci anni, prima con danzatrici italiane poi è cominciata questa collaborazione con danzatori senegalesi e della Costa d’Avorio che però vivono a Parigi da vent’anni. Come per il canto da sempre, anche quando la danza non faceva parte dei concerti, i cd venivano recensiti come musica danzante. Il movimento, la danza sono la realizzazione di un suono che diventa gesto, un lirismo scritto nell’aria. Sellou Sordet o Gerard Diby rendono «fisica» quella cifra che è nella nostra musica. Il tentativo di rendere un concerto un’esperienza quasi primordiale, fuori da paradigmi stilistici chiusi da steccati, la tribalità del «villaggio globale» deve trasformare il concerto in un rito.

Nelle intenzioni di Barbiero la prossima evoluzione dovrebbe portare a una ulteriore estensione delle voci e a una più completa e unitaria presenza coreografica e drammaturgica. Alla fine sarà Danza, Percussione e Canto.

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