Si deve a Ben Wilson, classe 1980, storico e ricercatore dell’Università di Cambridge, la più recente e avvincente sintesi sulla storia della città: La più grande invenzione della specie umana, come recita il sottotitolo del suo corpulento saggio Metropolis (il Saggiatore, pp. 560, € 34,00).
È scontato che il pensiero vada a Lewis Mumford (The city in history, 1961) anche se Wilson non lo nomina mai, perché i suoi riferimenti riguradano le scienze umane, tolta qualche citazione di Simmel o Jacobs. Per spiegare «gli ecosistemi umani complessi» sorti nel corso della millenaria storia dell’umanità ha preferito guardare ai cambiamenti del clima, alle mutevoli dinamiche demografiche, alle scoperte di nuove rotte commerciali, alle conquiste pacifiche o violente.
Con una convincente esposizione di dati statistici e una ricostruzione chiara dei fenomeni, Wilson non solo illustra le cause che hanno determinato la nascita, la trasformazione o la caduta di uno o più centri urbani – da quelli sorti nel 4000 a.C. in Mesopotamia alle megacittà composte di enormi e densi «insediamenti informali»: Lagos, Manila, Città del Messico, San Paolo, Dacca… – ma con abile stratagemma letterario individua, intorno ad alcuni temi, i fattori comuni che rendono alcune città simili e in competizione tra loro.
Il leitmotiv della ricerca è che gli abitanti nella loro «odissea urbana» sono sempre riusciti a progredire: «Sono le persone che costruiscono le città e le mantengono in funzione, sopravvivendo grazie all’ingegno e all’intraprendenza e rispondendo ai cambiamenti dell’ambiente circostante». Negli ultimi cinquemila anni si sia vista «la costante tensione tra chi prospera nel caos della città umana e chi vuole imporre qualche forma di coerenza artificiosa»: insignificanti per Wilson tutti i tentativi di «tecnocrati» o «urbanisti» di disciplinare il destino di qualunque centro urbano. È accaduto così a Uruk, l’insediamento mesopotamico durato circa quattromila anni, come nelle prime città cinesi (dal II millennio a.C. al II d.C.), sino a Manchester o Chicago, «i colossi industriali» del XIX secolo, per arrivare nell’epoca attuale alle metropoli di Londra o New York.
Nonostante le crisi provocate da catastrofi naturali, guerre, pestilenze, sfruttamento, le città continuano a esercitare un enorme potere di attrazione, tant’è che entro il 2050 è stimato che due terzi dell’umanità vivrà nelle città. Wilson le definisce «serre di coltura della storia», dai meccanismi complessi, che sorgono e si sviluppano in maniera autonoma e senza seguire alcuna pianificazione.
Accanto alla forza di richiamo delle città, si esercita, però, in stretta correlazione, l’antiurbanesimo: l’infinito tentativo di superare le deformità derivanti dalla concentrazione urbana, demolendo o diradando parti della città, o più radicalmente dislocandola, come accadde a Los Angeles con il suo modello del sobborgo nato nel dopoguerra (a Lakewood e nella San Fernando Valley ) e imitato un po’ dovunque negli States e in Europa.
Agli effetti devastanti dell’eccessiva promiscuità abitativa si dedicò l’etologo statunitense John B. Calhoun con degli esperimenti sui topi, ma il miraggio della «città perfetta» non aveva bisogno di alcun laboratorio giacché già nella Bibbia la Nuova Gerusalemme si descriveva «purgata dal vizio umano». Lo stesso immaginarono Platone e poi Tommaso Moro, mentre Leonardo e Canaletto rivelarono la città tangibile e terrena nei loro disegni, igienizzata e monumentale. Sarà però Ebenezer Howard, con la sua idea di città giardino, a sognare di «perfezionare la natura umana» attraverso l’utopia urbanistica, che confluita nelle teorie del Moderno (Le Corbusier, Wright) e poi del Postmoderno (Bofill) avrà, com’è noto, esiti fallimentari.
Wilson, tuttavia, suppone che fosse già esistita una civiltà «libera dal principio dai vizi e dagli abusi», come sembrano attestare le scoperte della «civiltà della Valle dell’Indo» (2600 a.C. – 1900 a.C.): pacifica, tecnologicamente avanzata, dotata di una raffinata pianificazione e al centro la sacra venerazione dell’acqua. Saranno gli archeologi in futuro a dirci qualcosa di più sui misteri di questa civiltà (Harappiana), intanto il pregiudizio antiurbano, condensato nella visione giudaico-cristiana che pensò New York una «moderna Babilonia», continua a alimentarsi nelle contraddizioni della realtà urbana.
Nel libro molti altri argomenti sono illustrati secondo singolari orditi tematici aventi ognuno sempre una relazione con l’attualità. Il cosmopolitismo, ad esempio, di Atene e di Alessandria quale motore della loro egemonia culturale è il medesimo che produce il dinamismo delle odierne «città globali», dove i residenti nati all’estero raggiungono percentuali altissime e la maggioranza come a Bruxelles o Dubai.
Che cosa li abbia attratti nel passato come nel presente non è solo la ricerca di soddisfare dei bisogni elementari, ma anche di godere delle molteplici attrazioni di svago offerte dalla vita in città. La Roma imperiale al suo apogeo rese «urbani» i barbari con i suoi complessi termali, come la costruzione di piscine nella New York del New Deal crea spazi di socializzazione per alleviare l’angustia dei quartieri popolari.
Intorno all’uso dell’acqua si possono leggere molte delle trasformazioni urbane; altrettanto si può fare seguendo le fasi di diffusione del consumo del caffè partendo da Londra, «metropoli della socialità» con le sue coffee houses, così ancora seguendo le tracce del commercio marittimo del cibo, degli utensili di consumo quotidiano o degli oggetti esotici e preziosi. Il racconto, infatti, del ritrovamento nel Mar di Giava della nave «Belitung» diretta a Baghdad con il suo carico di merce è l’espediente di Wilson per raccontare la vivacità del commercio in epoca medievale dalla Cina al Sud-est asiatico, dalle steppe al Mediterraneo.
Dopo la caduta dell’Impero romano le civiltà globali risorsero in Arabia e l’islamizzazione trasformò l’organizzazione delle tribù nomadi, le quali crearono, unite dalla fede, una comunità (Umma) estesa dall’Indo all’Atlantico, dal Sahara al Caucaso.
La brillante ricostruzione brillante effettuata da Wilson non riguarda per nulla solo gli aspetti dell’economia, della socialità e del costume. Pagine acute sono dedicata anche alla furia della guerra che distrusse le città e alla forza di volontà dei cittadini di ricostruirle: fosse il cuore medioevale di Lubecca, distrutto dalle bombe della Raf nel 1942, o quello di Varsavia raso al suolo da Hitler fra il 1939 e il 1945.
Nella brillante esposizione di Wilson ci si immerge in tragedie e storie romantiche di comunità e popoli che per vivere hanno costruito tra ordine e caos organismi urbani avanzati, per durare. La tesi che le città cambieranno, ma che «non sarà l’idealismo a provocare le trasformazioni», bensì lo stato di necessità, è la riflessione che lo storico inglese lancia, e non solo agli urbanisti.