Per la fantascienza americana – almeno dalla prospettiva italiana – gli anni Ottanta furono quelli del cyberpunk, dei console cowboy, gli anni del William Gibson di Neuromante e di «Johnny Mnemonico». Entravano allora nei luoghi di lavoro, nonché nelle case, i primi Pc, e cominciava quel processo tutt’altro che concluso che chiamiamo digitalizzazione. C’era tuttavia nello stesso periodo anche un’altra corrente che, retrospettivamente, si è rivelata altrettanto forte e importante: la si potrebbe indicare con il neologismo biopunk perché comprende la fantascienza interessata agli sviluppi delle scienze della vita, genetica in testa, più che alla rivoluzione informatica.

Valido rappresentante di questa tendenza, il racconto che dà il titolo alla bella raccolta di Octavia E. Butler, La sera, il giorno e la notte (traduzione di Veronica Raimo, Sur, pp. 209, € 17,00) nel quale si descrive una pandemia a venire, scatenata dalla Malattia di Duryea-Gode o DGD. Chi ne è colpito viene preso da improvvisi accessi di incontrollabile aggressività omicida, o di spaventosa autodistruttività. La sindrome è causata dagli effetti sul patrimonio genetico di un’innovativa cura del cancro, e ne consegue che tutti i figli di persone trattate in quel modo illo tempore siano destinati a diventare sorvegliati speciali, veri e propri paria costretti a portare in vista un contrassegno (qualcosa che ricorda anche troppo certe stelle gialle e di altri colori).

Parte proprio da qui – dalla violenza che può scatenare la diversità – il fil rouge che collega i vari racconti di questa antologia: Octavia Butler, di origine afroamericana e tratti somatici marcatamente africani, morta nel 2004 avendo lasciato incompiuto quello che avrebbe dovuto essere un ciclo di almeno sei romanzi, è una narratrice estremamente attenta alla questione del contatto, della interazione tra diversi, e quindi, fantascientificamente, tra umani e non umani.

Certo, nel caso di «La sera, il giorno e la notte», i malati di DGD non sono propriamente degli alieni (anche se agli occhi dei «sani» lo diventano); ma in «Figlio di sangue» e in «Amnistia», i due racconti migliori della raccolta, l’Homo sapiens sapiens è alle prese con creature di altri mondi, diversissime, con cui deve trovare un modo per convivere. Convivere per sopravvivere, perché l’alternativa è in entrambi i casi l’estinzione generale.

In «Amnistia», in particolare, i tlic, creature simili a millepiedi giganti, possono riprodursi solamente se incistano le loro uova in un organismo vivente; e l’ospite migliore è un corpo umano. Sul loro pianeta i terrestri sono immigrati per sfuggire alle persecuzioni che li affliggevano nel loro mondo; vivono in una riserva (parola carica di tragiche risonanze negli Stati Uniti, che Butler usa con consapevolezza) e per essere tollerati nonché forniti di beni essenziali devono offrirsi come «incubatori».

Riservata agli uomini, questa sorta di servitù biologica affianca quella delle donne, che si fanno carico della riproduzione degli umani. Così, obbligando i maschi a fare esperienza di una strana forma di gravidanza, Butler ribalta le convenzioni relative ai ruoli sessuali. E a partire da questa inversione evoca una singolare specie di famiglia, in cui clic e terrestri si ritrovano legati da strani ma forti rapporti di parentela. Anche altri racconti di questa antologia – per esempio il realistico «Una specie di famiglia» – evocano forme alternative di parentela: una sorta di tema ricorrente nella autrice di Legami di sangue (anch’esso recentemente riedito da Sur), dove una donna afroamericana di oggi viaggia nel tempo per incontrare i suoi avi, schiavista bianco lui, schiava nera lei.

Tutti i rimandi possibili

Anche il rimando al colonialismo è presente, quando – ancora in «Amnistia» – Octavia Butler ripropone nei missili con cui i governi terrestri tentano inutilmente di eliminare i tlic l’acciaio e gli archibugi con cui gli spagnoli combatterono gli Aztechi e gli Inca quando approdarono in America.

Se la crudeltà delle comunità aliene verso gli umani rapiti inizialmente a scopo di ricerca nasce anche dall’incomprensione della loro biologia, quella che gli umani rapiti subiscono dai vari servizi segreti terrestri una volta rilasciati dagli alieni non ha scusanti. Peggiori degli esperimenti dolorosi o letali degli alieni sulle cavie umane sono gli interrogatori brutali con cui si tenta di estorcere agli ex-rapiti i segreti delle comunità: Butler riscriva in modo originale le classiche alien abduction stories (di cui fa parte, per esempio Incontri ravvicinati del terzo tipo) saccheggiando – come usa nella fantascienza – un patrimonio consolidato, per sovvertirlo e rigiocarlo contro se stesso e i suoi presupposti ideologici.

Edmund Wilson sosteneva che ci sono libri il cui stile è nelle cose. Esattamente questo troviamo in tutto un versante della fantascienza, e in particolare nella fiction di Butler, le cui pagine sono popolate da tropi retorici incarnati, solidificati in creature aliene, mondi extrasolari, civiltà immaginarie, oggetti sconosciuti, tecnologie a venire. Per portare gli uomini a farsi biologicamente madri, per esempio, l’autrice di Figlio di sangue evoca una specie che inietta le sue uova in altri animali, attingendo all’entomologia.

Pandemia prefigurata

La fantascienza si nutre dell’immaginario scientifico, con l’intento di parlarci della nostra condizione esistenziale, storica, sociale, sessuale, politica: nessun livello è escluso. Se non si tiene conto di come, attraverso artefatti culturali sincretici, che proiettano realtà altre, gli scrittori di fantascienza rappresentano anamorficamente il nostro presente e il nostro futuro prossimo, non si coglie il potenziale di significazione intrinseco a questa forma narrativa. Ovvia, anzi proverbiale, l’attitudine a prefigurare il futuro, meglio se in forma di incubo.

Anche in Octavia Butler non manca il momento della catastrofe: la rappresenta, per esempio, in «Fonemi», dove siamo al centro di una pandemia (questa storia uscì nel 1983) che ha privato la maggior parte della popolazione dell’uso della parola, o l’ha ridotta all’analfabetismo.

Nel disegnare questa civiltà collassata, è interessante il modo in cui l’autrice immagina strategie di sopravvivenza fra i pochi che ancora parlano e perciò stesso rischiano il linciaggio da parte di chi non può più farlo. Ancora una volta, la diversità divide gli umani, e due personaggi – quello dell’insegnante che non sa più leggere e del poliziotto che non riesce più a parlare – esemplificano una qualche forma di convivenza, di socialità, tra diversi.