L’articolo di Giovanna Ricoveri (il manifesto) ha rievocato la figura di James’O Connor (Jim per i compagni) soffermandosi soprattutto sul suo impegno politico e culturale degli ultimi decenni in campo ambientalista: un impegno portato avanti senza mai rinunciare al suo approccio coerentemente marxista.

Lo sforzo teorico di O’ Connor – come ha sottolineato Ricoveri – è stato quello di illustrare la rilevanza di quella che lui definiva la “seconda contraddizione del capitalismo”, quella tra uomo e natura (dopo la prima tra capitale e lavoro).

Io vorrei soffermarmi invece su La crisi fiscale dello stato, il suo libro più famoso. L’edizione italiana pubblicata da Einaudi aveva una importante prefazione di Federico Caffè che chiariva un equivoco fondamentale che era sorto intorno al libro e che finiva per diffondere un messaggio antitetico a quello, per altro chiarissimo, che O’ Connor intendeva dare. Si tratta del costo enorme pagato dallo stato per il sostegno economico e politico al capitale monopolistico, che si esprimeva – allora come ora – nel complesso militare industriale.

Il libro – o forse semplicemente il suo titolo – fu spesso utilizzato a sostegno del credo neo-liberista, che in quegli anni cominciava e prendere vigore contrario all’intervento dello stato nell’economia e alla presunta incontrollata espansione della spesa pubblica per le politiche sociali (in particolare per i sussidi monetari agli indigenti: il welfare check.

Nella sua introduzione Federico Caffè sottolineava proprio questo punto, sostenendo che La crisi fiscale dello stato era divenuto «una specie di formula ad effetto volta a presentare l’immagine di uno stato che – vittima di apprendisti stregoni che l’hanno indotto a percorrere con leggerezza la strada dell’espansione della spesa pubblica – si trova ora di fronte a una situazione di dissesto».

E in effetti nel corso degli anni sessanta – quelli della great society Johnsoniana e della guerra alla povertà – la spesa sociale era cresciuta enormemente senza per altro riuscire a garantire un lavoro e una vita decente a quote molto estese della popolazione (soprattutto minoranze nere e ispaniche) anche se – val la pena ricordarlo – era riuscita a migliorarne le condizioni.

Sulla funzione di controllo sociale del sistema di welfare state americano O’ Connor non aveva dubbi. In questo concordava con i grandi studiosi del welfare dell’epoca: in particolare con Richard Cloward and Francis Fox Piven.

Ma per lui il problema centrale era un altro: quella della creazione continua di masse di poveri, che poi spettava allo stato mantenere.

Vale pertanto la pena di ribadire i punti rilevanti e originali del pensiero di O’ Connor al riguardo, inquadrandolo nell’ambito culturale della sinistra americana dell’epoca la quale trovava una voce colta e accademica nel Journal of Radical Political Economics.

Il suo punto di partenza è Il Capitale Monopolistico di Sweezy e Baran pubblicato una decina di anni prima: testo al quale si riferiscono (insieme a quello di Harry Bravermann Lavoro e Capitale monopolistico) molti di quegli studiosi, in particolare quelli che analizzavano vano i meccanismi di funzionamento e la struttura del mercato del lavoro, i giovani (allora) teorici della segmentazione e del dualismo.

Per questi ultimi il ‘compromesso keynesiano’ raggiunto negli anni trenta in America aveva garantito al settore forte e centrale della classe operaia (quello alle dipendenze delle imprese monopolistiche) sicurezza occupazionale e alti salari, scaricando sugli altri, quelli relegati nel ‘settore concorrenziale dell’economia’ il problema della precarietà e dei bassi salari. Lo stato – garante del compromesso – si accollava la responsabilità di provvedere al mantenimento della popolazione eccedente.

Nel libro successivo, Individualismo e crisi dell’accumulazione pubblicato da Laterza, egli allargava la sua ottica e dall’analisi economica a un approccio in cui gli aspetti sociologici e i contributi della teoria critica tedesca si aggiungono e rendono ancora più complesso il quadro.

Qui sottolinea come le diverse funzioni dello stato, quella di legittimazione (attraverso le politiche sociali), quella repressiva e quella di garantire il processo di accumulazione entrano in contrasto tra di loro. L’essenza delle scelte compiute in quegli anni – a partire dalla generalizzazione delle politiche keynesiane nelle loro varie edizioni e sotto le pressioni popolari e le esigenze di controllo sociale – è consistita nell’espansione dei consumi, nella crescente tendenza alla mercificazione dei beni e dei servizi (ed alla soddisfazione dei bisogni sotto forma di merci).

Per effetto di ciò il settore dei beni di consumo ha finito per espandersi a svantaggio del settore dei beni capitali.

La mancata espansione di quest’ultimo, anzi la sua effettiva penalizzazione, si traduce in una riduzione del livello di produttività del sistema. E in ultima analisi nella crisi dell’accumulazione. Ma all’origine di tutto c’è il processo di progressiva affermazione dei valori dell’individualismo penetrati anche all’interno della classe operaia americana, a spese delle strutture solidaristiche tradizionali.

Questi rilevanti nella visione di O’Connor trovavano una sede importante di dibattito nella rivista Kapitalistate (con la K in omaggio a Marx), che lo tenne impegnato soprattutto nella seconda metà degli anni settanta : una rivista importante e diffusa tra gli studiosi marxisti, soprattutto non ortodossi, all’epoca.

La sua visione dello stato non appartiene al marxismo tradizionale. Lo stato capitalista è di parte – ma non è il semplice ‘gabinetto di affari della borghesia’ – è soggetto attivo ma è anche terreno di scontro.

In quegli anni il dibattito sul tema è molto intenso tra i marxisti in Europa e in America. Ora del ruolo dello stato non se ne parla più tranne che per ribadire come per effetto della globalizzazione lo stato ha perduto peso e rilievo. E che forse l’importanza ad esso data dal marxismo dell’epoca era eccessivo.

Certo il passaggio da un epoca di politiche keynesiane a un epoca di politiche neo-liberiste ha mutato certamente il quadro. E le cose sono andate ancora peggio. Alla crisi fiscale e alla sua specificazione in termini di crisi dell’accumulazione è seguita una fase ancora peggiore: quella della riduzione estrema della spesa sociale da Reagan in poi che trova il suo coronamento in Trump.