A Venezia non c’è un’istituzione tipo il Mudec di Milano o il Museé du quai Branly-Jacques Chirac di Parigi, ma non importa: la Fondazione Ligabue è riuscita a portare in Laguna, a Palazzo Franchetti sul Canal Grande, una grande mostra, organizzata proprio con il Musée du quai Branly, dal titolo Power & Prestige Simboli del comando in Oceania (fino al 13 marzo, catalogo Skira, pp. 320, e 59,00), dove i bastoni di comando sette e ottocenteschi delle isole dell’Oceania (le isole Marchesi, Tahiti, l’arcipelago delle Tuamotu, le isole Cook, Fiji e la Polinesia occidentale, Vanuatu e la Melanesia, Aotearoa Nuova Zelanda) sono esposti come opere d’arte, con la loro connessione al simbolo, del potere e della religione.
Bellissimi, riccamente scolpiti, di solo legno intagliato e lucidato, o arricchiti da materiali diversi quali conchiglie, madreperla, pirite, foglia d’oro, piume, intarsi di avorio di balena (tolto a balene non cacciate, ma spiaggiate), spine di pesce, ossa di uccello, semi, questi bastoni del comando non sono più considerati armi di guerra, come in passato, ma sono visti nel loro contesto: gli artisti che li scolpirono erano considerati il tramite tra l’esistenza terrena e quotidiana e il «regno delle potenze superiori», gli avi e il divino. Erano dunque molto rispettati all’interno delle diverse comunità.
I curatori hanno restituito a questi bastoni il loro statuto artistico e la loro appartenenza a una civiltà, quella dell’Oceania, dove si facevano sì aste e lance da guerra, ma dove questi manufatti esprimevano significati ulteriori. Restituire il giusto valore a oggetti di altre, lontanissime culture vuol dire rinunciare a un punto di vista eurocentrico, come fa in contemporanea, sempre a Venezia, la Collezione Guggenheim con la mostra, aperta fino al 10 gennaio, Migrating Objects. Arte dall’Africa, dall’Oceania e dalle Americhe.
Storicamente il relativismo culturale è stato un radicale giro di boa per noi europei, ma forse lo è stato meno per gli americani. Nel 1867 Henry James scriveva in una lettera a un amico: «Siamo nati americani – il faut en prendre son parti. Lo considero una grande benedizione; penso che essere nati americani sia un’eccellente preparazione per la cultura. Possiamo occuparci liberamente di forme di civiltà non nostre, possiamo sceglierle, studiarle, in breve assimilarle (da un punto di vista estetico etc.) e considerarle nostre dovunque le troviamo». Forse James si illudeva, visto quello che è accaduto dopo, quando ha prevalso l’imperialismo, ma la libertà di apprezzare altre civiltà fa certo parte della cultura nordamericana.
È forse questa libertà di pensiero, non condizionata dalla consapevolezza di secoli di civiltà, che ha permesso agli americani di aprirsi, prima di noi europei, ad altre culture, profondamente diverse: ricordo la mia sorpresa, molti anni fa, nel vedere una sezione del Metropolitan Musem di New York interamente dedicata all’arte dell’Oceania.
La mostra Power & Prestige si appoggia su prestiti d’eccezione, concessi, oltre che dal Quai, dal British Museum, dal National Museum of Scotland e da altre collezioni europee pubbliche e private. È stato chiamato un curatore come Steven Hooper, sicuramente il più grande esperto della Polinesia e delle Fiji, appassionato di queste sculture fin da quando vide, bambino, in casa del nonno James Hooper, una «parete interamente coperta di bastoni úu delle isole Marchesi». A Hooper si affiancano Emmanuel Kasarhérou, presidente del Quai de Branly, e Alex Bernand, collezionista appassionato.
Ma la mostra è dovuta soprattutto alla volontà del presidente della Fondazione Giancarlo Ligabue, Inti Ligabue, che ha saputo valorizzare la straordinaria lezione e l’eredità di suo padre, che attuò centotrenta spedizioni nei diversi continenti, e fra molti altri reperti rinvenne un dinosauro lungo più di sette metri nel deserto del Niger (ora nel Museo di Storia Naturale di Venezia, a Giancarlo Ligabue intitolato).
La bellezza di questi bastoni di comando, di varie tipologie, riposa sia sull’armonia delle forme sia sulla fantasia delle decorazioni. I bastoni sono decorati con i più diversi materiali, come si è detto; le conchiglie e le pietre, e gli stessi legni, a cominciare da quello di casuarina, preferito per la sua durezza, dovevano essere modificati secondo un rituale tradizionale. C’erano i bastoni della danza come quello di Papua, ora al Museo di Leida, con figure umane stilizzate e pigmenti diversi di colore; o lo ’akau di Tonga, della stessa collezione Ligabue, con ben diciassette figure umane stilizzate; ma anche quelli in apparenza più semplici, con le loro superfici lisce, concave o convesse, oleati e lisciati fino a diventare oggetti preziosi: così lo ’Ao di Rapa Nui (Isola di Pasqua), bastone di danza bifronte appartenente alla Congregazione dei Sacri Cuori di Gesù e Maria di Roma, evidentemente portato dai missionari cattolici, non solo protestanti.
Come noto gli occidentali, alla fine del XVIII e soprattutto nel XIX secolo, decimarono le popolazioni dell’Oceania portando malattie, e contribuirono a troncare la produzione di questi manufatti artistici e religiosi, usati anche come oggetti di scambio (forse uno scambio simile al potlatch degli Haida, sul Pacifico, proibito nel 1884 dal governo canadese, che portò alla rovina di quella civiltà).
I curatori ammettono di ignorare ancora molto di questi bastoni. Ma è un inizio: «Molto è stato cancellato, ma tantissimo attende di essere disvelato». Questa mostra è un importantissimo passo in questa direzione. Intende anche, con programmi per famiglie e bambini, fare opera di sensibilizzazione nelle nuove generazioni verso un patrimonio di forme raffinatissime, specchio di una civiltà che nella cultura media è tuttora un pianeta sconosciuto.