Imprevedibile e potente. La mobilitazione civile nata sei giorni fa, con alcune decine di persone scese in piazza per difendere l’unico spazio verde rimasto nel cuore di Istanbul è cresciuta come una valanga. Il parco Gezi, sede prescelta per l’edificazione di un controverso centro commerciale, è diventato all’improvviso il simbolo dell’insurrezione contro i tratti sempre più autoritari del governo del premier Tayyip Erdogan. La ribellione, inizialmente pacifica, ma poi sfociata in proteste violente, e battezzata con il nome Occupy Gezi nei social media, è nata a Istanbul ma si è diffusa in altre 67 città del paese, inclusa la capitale Ankara.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata il violento attacco sferrato alle prime ore dell’alba di venerdì dalle forze dell’ordine contro i gruppi in presidio rimasti a pernottare nel parco. La voce si è diffusa rapidamente attraverso i social media, suscitando un moto di indignazione senza precedenti. A partire dal pomeriggio migliaia di persone, da tutte le parti della città, hanno iniziato ad arrivare in direzione di Taksim per protestare.

Piovono lacrimogeni e gas urticanti

Il contrattacco della polizia è stato feroce, con un uso indiscriminato di lacrimogeni, gas urticanti e idranti scaricati sulla folla. Non sono stati risparmiati nemmeno i bambini, gli anziani e i turisti esterrefatti. Gli ospedali del quartiere hanno iniziato a riempirsi già dopo le prime ore degli scontri. Numerosi centri di assistenza sanitaria sono stati improvvisati con il sostegno di dottori volontari; alberghi, scuole e centri commerciali hanno aperto le porte permettendo ai manifestanti di rifugiarsi.

[do action=”citazione”]Sono 1700 gli arresti e oltre 700 i feriti. E un blindato della polizia si schianta sulla folla, un morto e quattro feriti[/do]

Le persone rimaste a casa rifornivano i manifestanti dei miscugli preparati per lenire gli effetti dell’acido dei gas urticanti. Quella notte Istanbul non ha dormito. Dalle finestre delle case dei quartieri più disparati della città ha riecheggiato fino all’alba il suono delle padelle e delle pentole battute in segno di protesta del governo. Un gruppo di sostenitori del partito d’opposizione Chp è partito da Kadiköy ed ha attraversato a piedi il primo ponte sul Bosforo.

Il lancio dei lacrimogeni è andato avanti per ore fino a notte fonda, e anche nella giornata successiva, ma non è bastato a far retrocedere i manifestanti. Ad ogni carica la folla si disperdeva rifugiandosi negli antri dei palazzi, nei negozi o negli angoli riparati delle strade, per poi tornare di nuovo in postazione, mobile e ribelle, a battere le mani, a fischiare e a gridare slogan quali «governo dimettiti», «Tayyip (Erdogan) dimettiti» e «Tutti insieme contro il fascismo».

A 72 ore dall’inizio delle proteste lo stesso Erdogan, visibilmente disturbato dagli sviluppi, ha rilasciato la sua prima dichiarazione, ammettendo che forse era stato fatto un uso «errato» dei lacrimogeni e che sarebbe stata avviata un’indagine in merito. Ma questo è stato tutto. Il premier ha affermato che il dissenso va espresso in sede elettorale e che la mobilitazione in atto era di tipo «ideologico».

C’è voluto l’intervento del presidente Abdullah Gül per far ritirare le forze della polizia da Taksim. Dopo aver fatto un giro di chiamate al premier, al ministro dell’Interno Güler e al governatore della provincia di Istanbul, Gül ha attirato l’attenzione sull’uso spropositato della violenza da parte della polizia, chiamando le parti a mantenere un atteggiamento «maturo», e sostenendo che la «diversità delle opinioni» fa parte della ricchezza della «società democratica». Alle 16 di sabato scorso i manifestanti hanno potuto finalmente accedere alla piazza e al Parco Gezi.

Mentre ieri fino a tarda sera nel centro di Istanbul si respirava aria di festa, nel vicino quartiere Besiktas si assisteva allo scenario dei giorni precedenti. Lacrimogeni a raffica, fumi di gas degni di tempi di guerra, persone rincorse fin dentro i palazzi, l’Università Bahçesehir letteralmente assediata dalla polizia.

Media muti, parlano i social media

Scontri violenti si verificavano nelle stesse ore anche ad Ankara, Adana e Izmir dove alcuni gruppi violenti hanno dato in fiamme la sede del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP). Il bilancio attuale comunicato dal ministero dell’Interno è di 1730 fermi, anche se fonti non ufficiali sostengono che il numero reale è molto più alto. Secondo l’Associazione turca dei medici ci sarebbero stati mille feriti a Istanbul e 700 ad Ankara.

Gli eventi degli scorsi giorni si sono rivelati un test molto importante per indicare la dipendenza dal potere centrale dei media turchi, che hanno quasi interamente censurato la diffusione delle notizie relative alle mobilitazioni in atto nel paese. Hanno ignorato la mobilitazione civile più importante avuta negli ultimi trent’anni, in compenso hanno dato largo spazio a documentari sugli animali, reality show e soap opera.

Il campione della comunicazione è stato twitter grazie al quale le voci, a volte fasulle, ma presto smascherate, hanno potuto circolare liberamente. Il numero dei tweet inviati il primo giugno sono stati 27,5 milioni, contro la media giornaliera dei 9-11 milioni circolanti in tempi «normali». Il premier Erdogan non ha mancato di demonizzare i social media e twitter  in particolare, definendolo «una piaga della società».

Il potere del premier scricchiola

La mobilitazione registrata in questi giorni ha raggruppato in modo trasversale diverse età e settori della società, anche di posizioni politiche diverse. «La cosa più importante», come ha detto a Obc una manifestante «è la spontaneità umana di questa mobilitazione». Tuttavia, i protagonisti dell’insurrezione sono i giovani dai venti ai trent’anni che hanno resistito agli attacchi della polizia con una determinazione che indica chi non sono più disposti a subire passivamente le conseguenze della politica portata avanti dal governo.

«La questione del Parco Gezi è stata solo l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso. Le frequenti intrusioni al nostro modo di vita e l’atmosfera di repressione ci hanno fatto esasperare», racconta un altro manifestante, «io conosco tante persone che oggi si trovano qui che hanno votato l’Akp nelle elezioni precedenti», aggiunge.
Se il governo dell’Akp è fautore della forte crescita economica nel Paese, il divario tra questa crescita e adeguate riforme politiche risulta sempre più largo. Le opere urbanistiche imposte, la limitazione della libertà di espressione, i continui interventi nella vita delle persone, dalla recente limitazione dell’alcool, al diritto all’aborto, fino ad arrivare alla scelta del pane da consumare, hanno raggiunto un livello di saturazione che ha spinto a scendere in piazza migliaia di persone. Il governo non cadrà, ma ha subito un forte scossone.
E non è detto che sia tutto già finito.

* www.balcanicaucaso.org