David Graeber è un antropologo che ha concentrato la sua attenzione di studioso su fenomeni e comportamenti decisamente metropolitani. Dunque niente esotismo per le culture tribali o fascino per il «selvaggio». Da alcuni anni a questa parte ha, infatti, concentrato la sua attenzione sul secolare ruolo del debito come tecnologia del controllo sociale (Debito. I primi 5000 anni, Il Saggiatore).
Con lo stesso spirito etnografico ha studiato la burocrazia, fondamentale anello nella catena di comando finalizzata al dominio della società da parte di una ristretta élite (Burocrazia, Il Saggiatore); oppure ha passato al microscopio rituali, consuetudini e convenzioni socialmente necessarie alla democrazia (Progetto democrazia, Il Saggiatore). Graeber non ha mai nascosto il suo anarchismo, anche se la sua costellazione teorica contempla Max Weber, Gabriel Tarde e timidissimi riferimenti a Karl Marx, studiosi lontani dalla filosofia e antropologia libertaria condivisa.

LA PASSIONE MILITANTE lo porta spesso a collaborare e scrivere per riviste, magazine, quotidiani su argomenti legati all’attualità. E questo suo ultimo libro nasce proprio come evoluzione di una saggio scritto nel 2013 per la rivista online Strike. Il tema del suo contributo doveva essere la precarietà, la disoccupazione dovuta all’automazione, nonché l’annunciata scomparsa della classe operaia nel capitalismo. Con un movimento spiazzante, tuttavia, Graeber lo affronta da un altro punto di vista rispetto quanto circolava nei gruppi politici radicali dei movimenti sociali, quello della infelicità per i lavori senza senso, che alimentano nei singoli un paradosso difficile da gestire: lavorare impegnando gran parte delle proprie energie fisiche, psichiche e della propria creatività per poter pagare le bollette e odiare quel lavoro considerato dall’ideologia dominante l’elemento fondamentale della propria identità personale, nonché collante della società.

L’ESPRESSIONE usata da Graeber non è proprio senza senso, perché l’espressione scelta – bullshit jobs – è ben più colorita, visto che può essere tradotta come «lavoro di merda»). Il testo ha avuto una diffusione virale e in molti hanno scritto lunghe e-mail all’autore, raccontando la loro esperienza lavorativa, condividendo il punto di vista del saggio; o criticandolo. Graeber ha così raccolto centinaia di testimonianze, catalogate e archiviate per poi essere rielaborate per comporre una accurata ricerca antropologica o etnografica sul lavoro dei colletti bianchi nel capitalismo contemporaneo. In Italia è stata la Garzanti a tradurla e pubblicarla con il titolo Bullshit Jobs (pp. 396, euro 19, traduzione di Albertine Cerutti).
La prima chiave di lettura della ricerca investe le caratteristiche del lavoro manageriale, all’interno di una struttura gerarchica di tipo feudale. Una piramide dove i rapporti sono legati da relazioni vis-à-vis e da un complesso e in divenire, flusso di procedure che definiscono e valutano il lavoro dei sottoposti. Graeber parla di un feudalesimo manageriale, dove ricatto del licenziamento, fedeltà al superiore e accettazione silenziosa delle procedure sono le premesse dalla stabilità aziendale. Anzi, è la stabilità aziendale, la sua possibilità di riprodursi come organizzazione la mission del lavoro dei colletti bianchi.

ED È PROPRIO la costellazione sul lavoro impiegatizio che emerge nella prima parte del volume. C’è ovviamente il saggio di Charles Wright Mills (Colletti bianchi, Einaudi), ma anche l’antico Impiegati di Siegfried Kracauer (Einaudi) e L’uomo dell’organizzazione di William H. Whyte (sempre Einaudi). E ancora, come già evidenziato, la riflessione di Weber sulla burocrazia come elemento di costruzione dei rapporti di potere e di consenso nella società moderna. Ma se queste sono le «stelle» che orientano la navigazione nel lavoro senza senso, Graeber ha il merito di introdurre vere e proprie tipologie di figure chiave del feudalesimo manageriale. Ci sono gli sgherri, i ricucitori, gli sbarracaselle, i supervisori. Figure che non hanno necessità di spiegazioni, a conferma della loro inutilità effettuale. Producono carta straccia, oppure lunghe mail che vengono catalogate e archiviate nella loro inoperatività. Gran parte del tempo di lavoro è passato nella finzione di fare qualche operazione dotata di senso. Ma questo produce stress e una infelicità cronica. Molti rimangono a svolgere il loro lavoro, perché normalmente è pagato per sopravvivere in un capitalismo predatorio. Alcuni però rinunciano a quel salario dignitoso e si inventano o scelgono lavori che hanno una qualche utilità sociale (insegnanti, infermieri, contadini, sviluppatori di software open source) anche se pagati poco.

COSÌ VIENE INTRODOTTA la distinzione tra «lavori di merda» e «lavori senza senso». I primi fanno parte della grande schiera degli impieghi precari, sottopagati, esposti all’intermittenza. Possono riguardare il settore industriale, come quello dei servizi, ma sono forme di lavoro variamente analizzate. Quelli senza senso, invece, poco o nulla sono stati indagati. Il primo merito del libro di Graeber sta proprio nell’essere un volume di inchiesta, seppur poco militante e molto accademico.
Infelicità, stress, insensatezza delle relazioni personali. Ci sono quelli che studiano, scrivono romanzi, sceneggiature, schiattano sui social media, altri provano testardamente a proporre nuove modalità lavorative che diano senso alle ore passate in ufficio. La partecipazione, con nickname che non celano il vero nome, a Facebook e a Twitter ha la funzione di socializzare la propria condizione lavorativa, cercando conforto e rispecchiamento sulle tristi passioni dell’impresa contemporanea. Ma anche in questo caso non prelude a nessuna autorganizzazione né sindacale né di autocoscienza. Si tratta solo di sfoghi, che possono assumere tonalità rabbiose, di risentimento e di teorizzazione di pratiche opportunistiche. Elementi, secondo Graeber, che spiegano la crescita delle formazioni politiche populiste e xenofobe.

GRAEBER LO ESPLICITA chiaramente che l’afflato polemico del libro è contro le retoriche, dominanti nel mondo anglosassone, della «classe creativa», dei «knowledge workers», del «lavoro immateriale» sia nelle loro declinazioni conservative che progressiste, convergenti nell’indicare nel «lavoro senza senso» una centralità nei rapporti sociali di produzioni. Una convinzione smentita sia dalle statistiche che dai racconti raccolti.
Oltre alle narrazioni, sono interessanti anche le statistiche, in particolare quelle che mettono in evidenza che, oltre il 60% degli occupati nel management sono inutili, servono solo a costruire il consenso a un regime di accumulazione capitalistica in deficit di legittimazione a causa dei movimenti sociali globali e delle ricorrenti crisi finanziarie, sociali e ambientali. Illuminante è la frase di Obama riportata nel volume. L’ex-presidente degli Stati Uniti nel dire che la mediazione sulla riforma sanitaria aveva incontrato poca passione nel suo elettorato, dà una spiegazione abbastanza brutale e indica quei milioni e milioni di posti di lavoro nelle compagnie assicurative private che si sarebbero trovate senza lavoro. Obama aggiunge che non avrebbe certo potuto dare il via a programmi di investimenti per lavori socialmente utili che riassorbissero la disoccupazione. Per questo, era meglio mantenere milioni di lavori senza senso e un’assicurazione sanitaria penalizzante per chi ha salari bassi piuttostoche avere il coraggio di immaginare un nuovo new deal.
È su questo crinale che il libro compie, figurativamente, una vera svolta. Graeber richiama discussioni antiche sul lavoro produttivo e improduttivo, sulla teoria del valore-lavoro. Da buon anarchico prende le distanze dalla vision marxiana della teoria del valore-lavoro ed è più indulgente verso la centralità della divisione del lavoro in Adam Smith, sulla teoria di Davide Riccardo del lavoro, degli artigiani in Proudon o Richard Sennett. Ma è anche avvertito osservatore partecipante ai movimenti sociali. Graeber è stato, ad esempio, una presenza costante durante il movimento no-globali e di Occupy Wall Street arrivando a maturare la convinzione che occorre partire dai quei lavori che hanno una finalità sociale per trasformare i rapporti di potere nel capitalismo.

DA QUI LA TERZA CHIAVE di lettura del volume, che lo chiude. Si tratta dell’automazione che cancella lavori, compresi quelli senza senso. Quindi cosa fare? Certo, sviluppare iniziative produttive e lavorative autogestite finalizzate a produrre beni e servizi socialmente utili. Ma per questo occorre un reddito minimo garantito su base universale. Non quella carità dei redditi di inclusione o dei sussidi di disoccupazione progettati in Europa e negli Stati Uniti (l’ultimo in ordine di tempo è la proposta del governo italiano leghista e grillino) come una inferriata da aggiungere alla gabbia del lavoro salariato, bensì un reddito universale che consenta di vivere, sperimentando appunto forme di lavoro sociale.
Graeber non nasconde la difficoltà di questa proposta e i rischi che comporta nel rafforzare il ruolo di controllo sociale esercitato dalle istituzioni statali, le uniche immaginate per erogare il reddito minimo garantito. Ma sono rischi che vanno corsi, per evitare che le stigmate del lavoro senza senso e di merda colpiscano la maggioranza della popolazione. Ritorna così centrale la distinzione tra il 99% della popolazione depredata dalla ricchezza prodotta da parte dell’un per cento, cara a Occupy Wall Street. Non è un ritorno al passato, ma l’angolo prospettico per immaginare un futuro e un presente di libertà.