È probabile che lo sguardo di Obama non diventerà celebre come quello di Marilyn. Ma è certo che l’immagine politica del primo presidente di colore degli Stati Uniti deve a Obey una parte importante, se non decisiva, della propria celebrità. Le illustrazioni di Frank Shepard Fairey, classe 1970, conosciuto con il nickname di Obey, sono arrivate in Italia, in Puglia, precisamente nel Teatro Margherita di Bari. La mostra, curata da Gianluca Marziani e Stefano Antonelli, visitabile fino al 22 agosto, segue quella di Banksy, organizzata dalla stessa associazione MetaMorfosi.

«Make Art not War». In Obey Peace Revolution, la scelta è precisa, focalizzata sull’attualità. Ricorrono i colori giallo e azzurro che chiamano direttamente al sostegno dell’Ucraina. Insomma, caduto il Muro di Berlino, la Storia è tutt’altro che finita. È ridiscesa in campo con prepotenza. Ed è l’immaginario al quale Obey attinge e che ricostruisce è quello della Summer of Love degli anni ’70. Il percorso è parallelo. Ora come allora, l’Ucraina è come il Vietnam. La Russia imperialista di Putin ha preso il posto dell’Amerika.

LE OPERE IN RASSEGNA a Bari vengono da collezioni private. A differenza della street art più diffusa, non ci troviamo di fronte a riproduzioni grafiche di graffiti murali, ma opere matrici concepite e realizzate nelle forme della grafica riproducibile, manifesti e adesivi in testa. Obey, dunque, non usa gli spray ma l’intera attrezzatura e tecnologia della riproduzione di massa: stencil, fotografie stilizzate, cartoni, quindi, litografia e serigrafia, ispirandosi alla grafica sovietica e alla cartellonista futurista dei primi del ‘900. Più che «Artivismo» è una forma di Arte-azione, in cui dietro l’apparente e intenzionale impegno politico, il segno prevale sul messaggio, il gesto s’impone sul contenuto.

L’opera del 2009 dedicata al Female Power, che espone l’effigie di Angela Davis, e la serie We the People (2017) hanno un indiscutibile impatto emotivo e mobilitante, ma il rischio è di ipnotizzarci di fronte a un brand non solo riproducibile ma anche adattabile a situazioni politiche diverse. A restare Pop – più che l’arte – è il prodotto, con l’Obey-clothing nella moda, gli Obey-records per la musica e l’Obey-editorial nella stampa. Eppure, mettendo da parte perplessità e qualche pregiudizio, va dato atto che questa iper-merce (più che ipertesto) in parte serve a finanziare campagne per la difesa dei diritti civili, per la comunità Lgbt, contro l’uso delle armi in Usa, in difesa dell’infanzia.

FAIREY È UNO DEI PIÙ AMATI illustratori americani. Ispirato esplicitamente dalla pop art di Andy Warhol, è il più concettuale dei migliori street artists, e allo stesso tempo il più politicizzato dell’ultima generazione della post-pop art. Obey esordisce nel 1989 riempiendo i muri di stickers con l’immagine del lottatore André the Giant. Il fenomeno diventa virale.

«Ho il privilegio di essere parte della tua opera d’arte e sono orgoglioso di avere il tuo sostegno». Firmato il nuovo presidente degli Stati Uniti. Hope, il manifesto con il volto di Obama che con lo sguardo sembra indicare una nuova frontiera è diventata così «la più efficace illustrazione politica americana dai tempi dello Zio Tom», secondo quanto ha scritto il critico Peter Schjeldahl.

Come spesso accade con le creazioni di successo, non è mancato qualche guaio legale. Nel 2009 un blogger sconosciuto svelò che la foto era stata presa da Google. Lo stesso Fairey lo ha ammesso. E cosa c’è di strano nel villaggio globale del web? Sì, ammise, la foto è del premio Pulitzer, Tom Gralish. Ma è stato l’intervento creativo di Obey, agendo sul profilo e sui colori, che ha fatto dello scatto fotografico un manifesto pop. La vertenza che ne seguì è stata chiusa con un accordo. In compenso, Obey è riuscito a trasformare il punctum fotografico di Gralish in un’immagine cult.