Obama chiama. Renzi, sull’attenti, risponde. Più realista del re. Più veloce degli altri alleati degli Stati Uniti. Giovedì scorso Obama ha annunciato la decisione di prolungare la presenza dei soldati americani in Afghanistan oltre il 2016, chiedendo l’impegno degli alleati affinché si allineassero alle decisioni di Washington. Il giorno successivo, da Venezia, il presidente del Consiglio italiano gli ha risposto. Già allineato. «L’Italia è un grande Paese, stiamo valutando in queste ore la richiesta americana di proseguire per un altro anno», ha dichiarato Renzi, per il quale, «se l’impegno americano in Afghanistan prosegue, penso sia giusto che anche da parte nostra ci sia un impegno. Stiamo ragionando sull’ipotesi di proseguire nel nostro impegno».

La decisione di Obama era attesa: nel discorso alla Casa Bianca di giovedì scorso, il presidente Usa ha annunciato che gli attuali 9.800 soldati che operano in Afghanistan non rientreranno in patria alla fine di quest’anno, come promesso, ma resteranno per gran parte del 2016. Verranno gradualmente ridotti a 5.500 a partire dal 2017, con due compiti principali: addestrare le forze di sicurezza afghane, che Obama considera «non ancora solide quanto dovrebbero», e sostenere le operazioni di controterrorismo «contro ciò che rimane di al-Qaeda».

La replica di Renzi è arrivata puntuale, prevedibile quanto la subalternità dell’Italia all’alleato americano in politica estera: «Noi abbiamo scenari di guerra molto complicati» e abbiamo il dovere di intervenire, ha sostenuto il presidente del Consiglio, che ha poi maldestramente citato l’intervento alla Camera di mercoledì del segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, per avallare la sua decisione.

Avrebbe fatto meglio, Renzi, a citare se stesso: il primo giugno di quest’anno, alla vigilia della festa della Repubblica, durante una visita ai militari italiani della base di Camp Arena a Herat, nell’Afghanistan occidentale, Renzi aveva chiesto loro «un sacrificio ulteriore». Ancora pochi mesi, diceva a giugno, per non dissipare inutilmente «i successi ottenuti in Afghanistan». Venerdì ci ha ripensato. Non si tratta di pochi mesi: i 750 soldati italiani impegnati tra Herat e Kabul dovranno restare ancora un altro anno. Non torneranno a casa entro la fine del 2015, come previsto.

Sempre che il Parlamento dia via libera al prolungamento della missione italiana.

Prevedibili, su questo punto, le reazioni politiche. Per ragioni diverse, sia Ignazio La Russa, già ministro della Difesa con pose dannunziane, sia Arturo Scotto, capogruppo di Sel alla Camera, hanno ricordato che la decisione «deve passare per il Parlamento». Il passaggio parlamentare potrebbe essere l’occasione buona per chiedere conto della presenza italiana in Afghanistan; per riaprire la discussione sui risultati di una guerra che – contrariamente a quanto sostiene il presidente del Consiglio – non ha portato nulla di buono. Per riconoscere, finalmente, che l’occupazione militare è stata fallimentare.

Basta esaminare i fatti, al netto della retorica e della propaganda. I compiti della «missione internazionale» sono stati tanto più elastici quanto più evidenti le difficoltà sul campo.

Ma almeno tre sono rimasti costanti, in questi 14 anni: proteggere la popolazione locale; consolidare le istituzioni democratiche; sconfiggere i movimenti anti-governativi e i gruppi terroristici.

Sul primo punto parlano, per quanto parziali, le statistiche di Unama, la missione dell’Onu a Kabul: le vittime civili, anziché diminuire, continuano ad aumentare, ogni anno.

Sul secondo punto: il governo afghano è tra i più corrotti e inefficienti al mondo, mentre il governo di unità nazionale – imposto dal segretario di Stato americano John Kerry – ha istituzionalizzato l’antagonismo tra il presidente Ghani e il quasi primo ministro Abdullah.

Anche sul terzo punto il fallimento è totale: i Talebani sono vivi e vegeti; hanno superato indenni la burrascosa successione al vertice tra il mullah Omar e mullah Mansour, e sono riusciti a conquistare per alcuni giorni una città importante come Kunduz.

Intanto, comincia a farsi seria anche in Afghanistan la minaccia dello Stato islamico.

Renzi sostiene che l’Italia sia un grande paese, che in quanto tale abbia il dovere di intervenire, di mostrare i muscoli, di seguire le scelte della Casa Bianca e del Pentagono.

É vero il contrario: un grande paese archivia i paradigmi insensati e ne propone di nuovi. Renzi il rottamatore dovrebbe rottamare la vecchia equazione che in politica estera associa realismo e militarismo, l’idea che la politica estera sia schiacchiata sulla politica della difesa, che la difesa sia soltanto«sicurezza», intesa in termini militari.

Invece preferisce obbedire a Obama. Sempre sull’attenti.