È iniziato ieri il primo viaggio in Kenya di Obama da presidente degli Stati uniti. Imponenti le misure di sicurezza a Nairobi: dal Jomo Kenyatta International Airport alle strade della città. Schierati circa 10 mila poliziotti affiancati dagli agenti del Secret Service statunitensi nelle zone in cui era previsto il passaggio del convoglio. Chiuso lo spazio aereo intorno all’aeroporto.

Ad accompagnare Obama in un viaggio di stato nella terra natia del padre, senatori e imprenditori. Ad attendere quest’ultimi una folta schiera di uomini d’affari del posto impazienti di sentire cosa Obama avrà da dire alla platea del Global Entrepreneurship Summit (Ges) organizzato quest’anno per la prima volta nell’Africa Sub-Sahariana. La visita di Obama a Nairobi per co-presentare un evento commerciale di importanza mondiale è stato sponsorizzato dal governo keniano come un riconoscimento a livello globale dei progressi economici fatti dal Paese – la più grande economia dell’Africa dell’Est – negli ultimi dieci anni.
Uhuru Kenyatta, il presidente del Kenya, ha dichiarato recentemente di volere aprire a una presenza più capillare delle aziende americane in cooperazione con quelle locali nel settore dell’energia, della sanità e delle infrastrutture.

E proprio in quest’ultimo settore, di cruciale importanza per ambo i governi – di Washington e Nairobi – sarebbero sia la definizione di accordi pilota che faciliterebbero le aziende americane a investire in Kenya che la messa a punto di importanti investimenti degli Usa nel Paese già in fase di negoziazione. Affari da capogiro nell’ambito della competizione con la Cina nella corsa alla colonizzazione di risorse e territorio.

Nell’agenda dei colloqui dunque (soprattutto) gli affari legati al settore turistico – che ha conosciuto negli ultimi anni una forte incrinatura (a seguito dell’intensificarsi degli attacchi terroristici degli Al-Shabaab, specialmente dopo quello al Westgate Shopping Centre di Nairobi di settembre 2013 e il massacro ad aprile scorso all’Università di Garissa) – e dei trasporti.

In quest’ambito Kenyatta si aspetta da Obama l’aiuto necessario a ottenere il nulla osta richiesto dagli enti regolatori statunitensi per l’implementazione dei voli diretti tra il Kenya e gli Stati uniti (finora negato per motivi di sicurezza benché il Kenya già ricevi formazione e supporto logistico oltreché da Gran Bretagna e Israele proprio dagli Usa). Ma se su questo piano (quello degli accordi commerciali a breve e lunga durata, della cooperazione nella lotta al terrorismo e del sostegno militare nel settore sicurezza) non sarà difficile per i due leader giungere a importanti compromessi, sarà invece probabilmente arduo trovare un’intesa sul piano del riconoscimento e della tutela dei diritti umani soprattutto degli omosessuali.

Sulla possibilità di discutere di questo con Obama (che ha fortemente sostenuto la decisione della Corte Suprema degli Stati uniti lo scorso mese di riconoscere il matrimonio tra persone dello stesso sesso) Kenyatta si è già pronunciato nei giorni scorsi tagliando corto: «È un non-problema per la gente di questo Paese e non è sicuramente in agenda. Come Paese, come continente, ci troviamo di fronte a ben più gravi problemi in cui vorremmo coinvolgere gli Usa e tutti i nostri partner».

Esattamente il contrario di quanto chiedono e si aspettano da Obama le organizzazioni per i diritti umani, e cioè che sia messo all’ordine del giorno accanto alle questioni legate allo sviluppo economico anche quelle che minano la democrazia e le libertà civili.

«I keniani vengono sfrattati dalle loro case, licenziati dal lavoro e costretti a lasciare la scuola se sono gay, lesbiche o transgender. Per il presidente dire che questo è un non-problema equivale a nascondere la testa sotto la sabbia», ha commentato al Guardian Eric Gitari, direttore del National Gay and Lesbian Human Rights Commission di Nairobi.