Nelle scorse settimane, in ben due occasioni, il presidente americano Barack Obama ha tentato di «stanare» la Cina. In due successive interviste, all’Economist e al New York Times, Obama si è riferito alla Cina, sostendendo che Pechino starebbe volontariamente evitando di prendere una posizione chiara a livello internazionale.

In pratica, ha specificato il presidente Usa, la Cina, pur essendo la seconda potenza economica mondiale, da un punto di vista diplomatico continua a mantenere un basso profilo. Obama ha definito Pechino, «free rider», indicando con questa terminologia la consueta strategia cinese, che vuole Pechino muoversi in autonomia, a seconda dei propri interessi (come se gli Usa e altre potenze mondiali, facessero in modo diverso). Le allusioni di Washington a Iraq e Ucraina erano chiare.

Le parole di Obama – che ha dimostrato di conoscere bene, a dire il vero, i cinesi, quando li ha definiti «per niente sentimentali e poco interessati alle astrazioni» – in Cina hanno risvegliato alcuni editorialisti, che immediatamente hanno chiesto al presidente americano di pensare ai «suoi problemi interni», vedi Ferguson, sottolineando come sia stata la politica militare americana a creare i disastri iracheni, così come quelli in Ucraina (seppure via Nato). Va detto infine, che per quanto aggressiva, la politica cinese nel Pacifico, non ha creato – ad ora – alcun conflitto. Al di là di queste scaramucce, la posizione cinese nell’arena internazionale è un tema assai dibattuto a Pechino.
Xi Jinping parlando di «sogno cinese», una volta giunto al potere, sembrava voler invertire quel basso profilo tenuto da Hu Jintao nel decennio precedente.

Parlando ad esempio di «nuova relazione tra grandi potenze», a proposito degli Usa, il neo presidente sembrava voler uscire da quell’assertività internazionale che in tanti hanno sempre criticato. La realtà – però – dimostra che la Cina a livello internazionale, si muove spinta da valutazioni che riguardano la sua politica interna. Anche perché Pechino sa bene che una sua sistemazione stabile – politica e non solo (anche più di quella attuale)- accanto alla Russia, potrebbe finire per aver ripercussioni rilevanti, mettendo in crisi relazioni economiche con Europa e Stati uniti.

Pechino, quindi, concepisce la sua posizione internazionale come una necessaria «prova» da consumato equilibrista. Xi Jinping deve gestire alcuni nodi, che sono considerati prioritari: in primo luogo la stabilità economica e politica interna. Il quarto Plenum del Partito è stato anticipato ad ottobre (era previsto a novembre) perché dovrà discutere dello «stato di diritto» e valutare le riforme economiche del nuovo corso. La Cina dunque ha bisogno di stabilità internazionale, per dedicarsi al complicato e delicato passaggio interno: limitare le attività statali, liberalizzare settori economici, frenare la corruzione dilagante. Fosse per il Pcc, tutto il mondo potrebbe anche fermarsi.

Ci sono poi questioni pratiche: in Iraq la Cina ha investito molto, ma lo ha fatto soprattutto nelle zone che in questo momento non sono toccate dallo scontro tra Isis e resto del mondo. Per questo Pechino nicchia, a meno che i jihadisti non finiscano per entrare in rotta di collaborazione con l’indipendentismo uighuro, nel nord est del paese. In quel caso la tattica cinese potrebbe cambiare. In Ucraina il discorso è ben diverso, ma è sempre mosso principalmente da questioni interne. L’esigenza di gas al prezzo migliore, ha spinto la Cina a stringere i tempi con Putin, cui conveniva la chiusura dello storico accordo sul gas, anche per farne una leva in funzione anti europea.

L’avvicinamento tra Mosca e Pechino, però, è solo tattico; ora come ora, non può essere altrimenti.