Chi di noi non ha vissuto momenti di tragedia personale o collettiva nelle nostre vite? Dove nasce la tragedia? In ragione di quali contesti storici o situazionali? O di quali altre motivazioni? E in che misura un episodio destabilizzante o irrazionale può dirsi tragedia? I teorici si sono espressi su queste domande e hanno cercato di dare risposte giustificabili. Non ci «sono risposte» alla tragedia moderna, dice Karl Jaspers. Non c’è una «tragedia universale», sostiene George Steiner in La morte della tragedia: quella di tradizione ebraica si sana con la giustizia di Jahvè; l’ellenica si sospende in epoca illuminista (dopo Eschilo, Shakespeare e Racine), almeno fino a Ibsen, il quale pare riformulare nuovi sfondi istigatori: «la psichiatria sociale non risolve il dramma di Edipo – precisa Steiner – ma rapporti economici più sani o migliori impianti igienici possono risolvere alcune gravi crisi nei drammi di Ibsen»!
Sembra di capire, comunque, che, in genere, oggi si pensi che il senso del tragico venga dall’interno dell’io. non dall’esterno. La tragedia, è noto, obbedisce al destino della necessità, che però, scomparso il mito (gli dèi) o Dio (Nietzsche), è segnata dal tempo, e i nuovi impotenti anti-eroi della modernità lottano più che altro proprio con i fantasmi della propria psiche, i guasti dell’anima. E potremmo andare avanti. Ma indubbiamente, si può dire che la tragedia resta catastrofe: rivolgimento, e quindi, rovesciamento subìto dai tempi dell’anima moderna.
Joyce Carol Oates affronta il tema, così incerto nella sua teorizzazione, da lei consultata fino al 1972 (Sartre, Steiner, Hussler, il Metatheater di Lionel Abel, Nietzsche, Heidegger), quando pubblica quello che oggi ci viene proposto col titolo Ai limiti dell’impossibile Forme tragiche in letteratura (Edge: quasi intraducibile nelle sue delicate sottilità), scrupolosamente curato da Giulia Betti (il Saggiatore «La Cultura», pp. 238, e 24,00), con una breve introduzione della stessa Oates non datata, che suona attuale in tutte le sue modalità.
Il libro sciorina nove saggi, con i primi tre contraddistinti da un genere di tragedia diversa: dell’«esistenza», dell’«immaginazione», dell’«impossibile». Si va da Shakespeare (Troilo e Cressida, Antonio e Cleopatra) a Melville (Pierre, Billy Budd, The Confidence Man), Dostoevskij (I fratelli Karamazov), Cechov (l’«assurdo»: il Giardino dei ciliegi, Le tre sorelle), W. B. Yeats (la violenza/tragedia nel ciclo di Cuchulain e Plenilunio di marzo), Thomas Mann (Doctor Faustus), Ionesco (la Cantatrice calva, Assassinio senza movente), preceduti da un’epigrafe tratta da Journal en miettes di quest’ultimo, che ci dà in realtà sùbito un indizio all’intricato problema: «Ho sognato – scrive Ionesco – che mi veniva detto: ‘La rivelazione, la risposta a tutte le domande può venire solo in sogno. Devi sognare’. Così, nel mio sogno, mi addormento e sogno, nel sogno, che sto facendo il sogno assoluto … il sogno della verità assoluta, il sogno chiarificatore … Sono l’io che organizza se stesso, disponendo la stessa materia in un unico motivo». Qui è l’antifona a variazioni su un tema, delle quali Amleto sembra farsi spesso filo conduttore.
Ionesco, e non solo perché scelto a epigrafe, sembra dunque già dare una chiave di lettura alle risposte di Oates, la quale intanto dice la sua sulla forma drammatica: «L’arte della tragedia scaturisce dalla crepa che divide l’io dalla comunità, da un senso di isolamento. Alla sua base c’è la paura … L’arte drammatica ha inizio soltanto quando una realtà umana unica rivendica la sua passione contro la totalità della passione, ‘disponendo la stessa materia in un unico motivo’, rischiando di perdere l’io nel tentativo di realizzarlo – ed è in quel momento che si fa avanti nel mondo un Edipo, un’Antigone. La trasformazione dello scenario domestico in quello selvaggio è l’aspetto della tragedia che sempre ci sconvolge, poiché nella nostra sana pazzia non possiamo immaginare che la nostra ragione di vivere comporti la morte della passione, il suo annichilimento … L’eroe al fulcro della tragedia esiste affinché possiamo testimoniare, nella sua distruzione, il rovesciamento delle nostre vite private».
Fermiamoci qui, benché quanto segua sia altrettanto rilevante, con i rimandi più o meno dissidenti, ma ragionati, a Hussler, Abel, Steiner, arrivando addirittura, Oates, a contraddire quest’ultimo, con una provvisoria conclusione che ribalta Steiner (e Nietzsche e Beckett): «La fede collettiva in Dio è diminuita tanto che, come scrittori, non possiamo più approfittarne, dunque una ridefinizione di Dio rispetto alle vette più estreme dell’allucinazione umana può fornirci una nuova base per la tragedia. L’abisso si aprirà sempre per noi, benché inizi con un segno di matita, parodia della crepa; le forme delle bestie umane (centauri, satiri e loro seguito) ritorneranno sempre con nostalgia alle nostre grandiose città» (un’allusione al King Kong di Edgar Wallace, film e fumetto?).
Sospendiamo al momento la valutazione di queste risposte (se sono definitive), e vediamo invece gli annunci del moderno dal passato, a cominciare con l’ambiguo Troilo e Cressida di Shakespeare, da considerare, secondo Oates, «documento del presente» nel suo indagare le infedeltà coniugali (l’inizio, tanto per darne uno, è in Madame Bovary, per non risalire alla Lettera Scarlatta), il suo sostanziale puritanesimo nell’ossessione per la «carne che opprime lo spirito», secondo il nostro dettato cristiano istituzionale, e «il suo implicito dibattito tra ciò che è essenziale nella vita umana e ciò che è solo esistenziale». Tutti temi del ventesimo secolo, su cui si innesta una presunta tragedia moderna. E, infatti, Troilo e Cressida, come Amleto – anch’esso, fra l’altro dramma di adulterio –, non è una tragedia pura, è un dramma «problematico», un dramma che pone problemi ma non li risolve. Auerbach, sostiene Oates, sembra riferirsi proprio al Troilo quando, in Mimesis, discute le differenze radicali tra le tragedie shakespeariane e quelle dell’antichità. Tutt’altro discorso vale per l’adulterio in Otello, già annunciato nel Troilo, e navigante irrazionalmente verso una vera tragedia, che possiamo pure chiamare ‘moderna’ nei suoi paramenti (per esempio, da noi, un nominale delitto d’onore).
Di contro, Antonio e Cleopatra è un dramma iperbolico nelle sue disfunzioni tra le illusioni e la realtà, gli interessi politici e il «rimbambimento» istigato da una «cortigiana», le armi e l’arte della seduzione: un abisso di sistemi nelle due visioni inconciliabili del mondo romano e il mondo egiziano, dovuto al cuore «cieco» del «giullare» Antonio, che finisce col generare «comicità» e «ironia» piuttosto che senso del tragico. Come, ma qui senza ironia, nella differenza tra l’«amore» che domina i troiani e la «ragione» dei greci inscenata nel Troilo. Dopo la morte di Antonio, resta solo lo «spettacolo» e il risuono della grande poesia.
Il conflitto «tragico/comico» che non trova soluzione torna nei Fratelli Karamazov, un romanzo storico, e i Karamazov «sono la Russia», investita da un mistico senso profetico di timbro cristiano che non si unisce a una combaciante realtà di fatto, perché «c’è un riecheggiare diabolico in quella che sarebbe dovuta essere la parola finale». Si va via via verso le modalità dell’«assurdo», che pare darsi inizio nel Cechov delle Tre sorelle e del Giardino dei ciliegi, un territorio aperto per Beckett: «per usare un’immagine, Godot si avvicina all’insondabile come fa la balena bianca di Melville, il primo tramite l’assenza, la seconda con la sua presenza tremendamente particolareggiata. L’immaginario di Cechov è certamente più convenzionale di quello dei drammaturghi dell’assurdo, perché è vincolato a un teatro naturalistico, ma l’uso che fa delle immagini è simile».
Molto diverso, tuttavia (ma siamo in altri tempi e in altro mondo), il nichilismo di Melville, anch’egli, come Shakespeare, intrappolato dalla natura frammentaria e ingannevole della «realtà». Tuttavia, diversamente da Shakespeare, Melville è ossessionato anche «dalla relazione dell’uomo con Dio», esattamente come Dostoevskij. Ma quello di Melville è un Dio «primitivo, associato a una bestia, o addirittura contenuto in essa; è un Dio intellettuale, che esiste soltanto nell’immaginazione umana; è il Dio di tutto ciò che è antiumano, forse il diavolo stesso». Di qui il dramma di Melville in terra puritana, dramma impersonato dalla balena; dal con man (l’imbroglione dell’Uomo di fiducia) su una «nave dei folli», navigante (e trafficante) sul Mississippi; dall’implacabile senso di giustizia marittima di Billy Budd e Giacca bianca; dall’irresoluzione degli inconsapevoli scambi incestuosi di Pierre, che mettono a nudo il desiderio inesaudibile di una «qualificazione della realtà in base alle infinite ambiguità presenti sia all’interno dell’io che nel mondo». Un dramma infinito dunque e mai sedato, se non dalla morte del grande americano nel 1891, ai limiti del Novecento.
La divinità «opera al di fuori delle nostre antinomie», scrive Yeats, confermando un impossibile dialogo con Dio, che esiste ancora nonostante il no di Nietzsche, «venerarla nel terrore potrebbe essere il nostro destino». Come Cechov, nel ciclo di Cuchulain e in molte sue poesie, Yeats è allarmato dallo sfascio di una cultura, e resta alieno agli elementi che la compongono. A suo avviso, tutto «deve essere ridotto alla purezza, all’atto puro», sebbene sia incapace egli stesso, come poeta e pensatore, conclude Oates, di rendersi «puro» ai fini di «scartare la ricchezza del dolore e del caos» a favore dell’articolazione dell’«Unità dell’Essere».
Humanitas, è la parola d’ordine nell’ebraismo di Thomas Mann. Siamo in area più mitteleurorpea, solitamente meno osservante dell’imperio di Dio, ma il senso d’ordine auspicato dalla modernità non cambia molto. Oates sa cogliere al meglio l’anima tedesca di Mann nei suoi commenti al Doctor Faustus, ove torna in scena, per pura sintonia, il Diavolo dell’Achab faustiano di Melville. Ma con una differenza, se si coinvolge Nietzsche, perché «la lingua della passione, della hybris e della tragedia» va a rappresentare «l’autentica secolarizzazione tedesca della ricerca religiosa e della salvezza», una secolarizza-zione che in Melville non può avvenire. Il suo – più grande – è un dramma inscenato tra gli incerti concetti del bene e del male (quale dei due è la balena? e dov’è Dio in questa aporia?) che furono il dramma stesso della sua tormentata esistenza.-
La vita è un «sogno» invece per Ionesco, o piuttosto, «una serie di sogni interrotti, traditi, brutalmente confinati a una forma, informi», perché erroneamente in quel fragile contesto si finisce con il trasporre il «reale» nel «fantastico». Tutto diventa problematico e simbolico in Ionesco, ma non «psicologico», se non in modalità limitate. Le profonde complicazioni della vita, sostiene Oates, che troviamo in Thomas Mann aprono la strada in Ionesco a una «realtà» irriducibile, «forme umane vivide, simili a cartoni, che fanno le prove con gli antichi rituali tragici dell’umanità».
«Solo ciò che è intollerabile è teatrale», conclude a suo modo Ionesco. Ma Oates non può fare a meno di sottrarsi a questo anatema, confinando Ionesco nel suo sinistro Nulla, e deducendo che l’essere a questo punto non può che essere «una vuota finzione. E il nostro divenire è ugualmente fittizio, in quanto ci troviamo di fronte a porte chiuse, non perché ci manchi la facoltà di movimento ma perché vogliamo essere immobili, mentre aspettiamo una chiave, un miracolo. Non c’è alcuna chiave». Di conseguenza, il divenire diventa «un incubo da cui il risveglio è sia salvezza che annichilimento».
Viene in mente la stessa impasse in cui finisce col cadere T. S. Eliot negli Uomini vuoti, dopo le flebili speranze lasciate nel finale della Terra desolata, si arriva invece a una pura immobilità nei confronti della realtà e della salvezza. Resta solo l’ignavia e il Nulla.