Non è ancora arrivata, ma già comincia a far ballare i mercati internazionali. Ieri, a quasi un mese dall’entrata in vigore del nuovo anno cinese nel segno della scimmia, le borse di Shanghai e Shenzhen hanno creato preoccupazione in tutto il mondo. Le contrattazioni nelle due piazze sono state chiuse, perché crollate al -7%.

Si tratta di un esordio con il botto per il «circuit breaker», la soluzione pensata da Pechino dopo la travagliata estate, che permette di sospendere per 15 minuti le contrattazioni quando le azioni dell’indice Csi 300 (i trecento maggiori titoli quotati) calano del 5%. Se alla ripresa si scivola al -7% si chiude del tutto la giornata. Soluzione drastica, tanto che Mashable l’ha definita la «nuclear option» in tema di borse, listini, contrattazioni, titoli ed economia. Elementi che pur apparendo virtuali e a tratti esoterici nel loro procedere, hanno ripercussioni profonde negli equilibri economici mondiali.

Il tonfo cinese ha finito – inoltre – per avere ripercussioni anche in Europa con le aperture delle borse tutte al ribasso. Francoforte è arrivata a -4, Parigi a -2,6, Milano a -3,2. Terribile avvio anche per Wall Street, peggior inizio in 84 anni: il Dow Jones perde il 2,29% e il Nasdaq il 2,6%. Male, malissimo, anche Tokyo, -3%.

La domanda, di fronte a queste nuove turbolenze, è sempre la stessa: perché?

La spiegazione degli analisti si muove principalmente in tre direzioni. Da un lato ci sarebbero cause di forza maggiore, dovute alle tensioni mediorientali che comportano pesanti oscillazioni dei prezzi del petrolio e dell’oro e una generale instabilità geopolitica. Dall’altro lato si è assistito a un (nuovo) calo dell’industria manifatturiera cinese, secondo l’indice Pmi Markit- Caixin, che porterebbe le piazze cinesi a generare sfiducia.

L’indice a 48,2 indica una contrazione cui Pechino ha tentato di ovviare da tempo attraverso nuovi stimoli. Ma la ripresa promessa non è arrivata. Infine c’è una motivazione «cinese»: a breve scadrà il divieto per i grandi azionisti che detengono più del 5% delle azioni di un titolo, di vendere; durante la scorsa estate il governo di Pechino aveva inchiodato i grandi investitori ad un comportamento rassicurante, specie nei confronti degli «gnomi», i milioni di piccoli risparmiatori impegnati a giocare in borsa. Al momento non si conosce il futuro di questo divieto in vigore da ormai sei mesi e prossimo alla scadenza. Questa, altra, ennesima, incertezza potrebbe aver generato una paura negli azionisti, corsi a vendere «prima» dei «grandi». A questo si aggiungono le manovre sullo yuan, che potrebbero aver portato a fughe di capitali, insieme alla mancata riforma delle aziende di Stato.

Poiché le oscillazioni della borsa si basano su promesse e fiducia, ognuna della spiegazioni può aver senso. Anche quella che vuole ripercosse sul mercato cinese le tante tensioni mediorientali. Qualcosa starebbe infatti per cambiare nella strategia estera di Pechino e il tonfo della borsa, se non è una causa diretta di alcune di queste novità, potrebbe costituirne un segnale.

La crisi mediorientale, ma più in generale gli assetti geopolitici mondiali, hanno sempre visto la Cina in una posizione di secondo piano. La regola di Pechino è stata sempre la stessa, dai tempi di Deng: non interferenza e dialogo con tutti. Non a caso, ad esempio, seppure la Cina sia sempre stata nel «fronte» pro Assad in questi giorni è annunciata la visita a Pechino dei «ribelli» siriani. Inoltre l’Assemblea nazionale ha dato il via libera alla legge sull’antiterrorismo. Per la prima volta la Cina prevede missioni delle proprie forze speciali anche all’estero. Un player globale del genere sullo scacchiere mondiale, potrebbe essere un’altra novità portata dalla scimmia.