l processo al Jazeera ripartirà da zero. La Corte di Cassazione del Cairo ha così accolto la richiesta di appello dei giornalisti del canale televisivo del Qatar, in carcere da oltre un anno. Gli imputati, che non potranno uscire di prigione su cauzione, sono stati condannati lo scorso giugno a sette anni di carcere con l’accusa di aver diffuso di false informazioni e collaborazione con i Fratelli musulmani. L’unica colpa dei giornalisti è in realtà di aver coperto gli eventi del sit-in islamista di Rabaa al-Adaweya contro l’arresto dell’ex presidente Mohammed Morsi. Tra i condannati figurano anche l’egiziano-canadese Mohammed Fahmy (in cattive condizioni di salute) e l’australiano Peter Greste, mentre l’egiziano Baher Mohammed è stato condannato a dieci anni. La decisione di dare il via a un nuovo processo è stata presa in pochi minuti. Nessun giornalista è stato ammesso in aula, i parenti dei detenuti hanno atteso la decisione nel corridoio mentre circolavano voci di una possibile liberazione su cauzione dei tre, poi rivelatasi infondata.

Nei giorni scorsi la rete televisiva al Jazeera Mubasher Misr (Egitto in diretta), con sede a Doha in Qatar, ha chiuso i battenti. Il canale era rimasto il solo a difendere l’ex presidente islamista Mohammed Morsi continuando a definire «golpista» l’ex generale Abdel Fattah al-Sisi. Non solo, la televisione del Qatar era rimasta l’unica a coprire le diffuse manifestazioni anti-golpe che hanno avuto luogo negli ultimi mesi in tutto il mondo. La chiusura è arrivata in seguito a un più vasto tentativo di normalizzazione delle relazioni tra Qatar ed Egitto, sponsorizzata dalla monarchia saudita, che ha facilitato l’espulsione di decine di esponenti della Fratellanza in esilio a Doha dopo il golpe del 2013. In un primo momento sembrava che la decisione potesse facilitare il rilascio dei quattro reporter del canale satellitare in carcere in Egitto. Anche il presidente degli Stati uniti Barack Obama aveva chiesto ad al-Sisi spiegazioni sui processi contro i giornalisti di al Jazeera nel primo incontro dello scorso settembre a Washington.

Nel gennaio 2014, Amnesty International aveva lanciato una campagna per il rilascio dei giornalisti a cui hanno aderito i media di tutto il mondo, con lo slogan: «Il giornalismo non è un crimine». Dopo il colpo di stato del 3 luglio 2013, la censura dei militari ha colpito duramente la stampa non allineata con la propaganda di regime. In particolare molti dei canali televisivi, fioriti dopo le rivolte del 2011, sono stati oscurati per il timore che avrebbero potuto incitare la folla a manifestare contro l’arresto dell’ex presidente. Solo nella notte della deposizione di Morsi sono state oscurate 14 reti televisive. Nelle stesse ore le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nella sede del Cairo di al Jazeera, arrestandone il personale.

I Fratelli musulmani hanno denunciato l’uso eccessivo della forza in seguito alla chiusura di queste emittenti. Nessun canale è stato chiuso nell’anno di presidenza Morsi. Dopo l’insediamento del governo ad interim e la risicata vittoria elettorale alle presidenziali di al-Sisi, sono stati arrestati blogger e attivisti politici. Le epurazioni dei militari hanno colpito anche i vertici dei media nazionali. L’Assemblea generale dei giornalisti del quotidiano filo governativo al Ahram ha licenziato l’amministratore del giornale Mamdouh al-Wali, i dirigenti Abdel Nasser Salama e Mohmed Kharaga, che erano stati nominati durante la presidenza Morsi. Infine, ad entrare nel mirino dei militari è stato anche il canale satellitare al Arabiya, con sede a Dubai, che ha denunciato di essere vittima in Egitto di un ampio attacco cibernetico, dopo la destituzione di Morsi.
Infine, dopo la fuga di notizie e la diffusione di intercettazioni telefoniche che inchiodano i militari egiziani in riferimento alla detenzione illegale dell’ex presidente Morsi, erano arrivate importanti epurazioni in Egitto. Il presidente Abdel Fattah al-Sisi ha rimosso il capo dell’Intelligence, Mohammed Farird el-Tohamy. Al suo posto è stato nominato il suo vice, Khaled Fawzy, che avrebbe posizioni ancora più radicali e vicine ai militari del suo predecessore.