Nulla di fatto. La processione di Di Maio e Salvini al Quirinale non è servita a svelare l’identità di «mister x», anzi «dell’esecutore» come ha detto ieri il leader pentastellato uscendo dal colloquio con il presidente Mattarella. Naturalmente non un esecutore testamentario, ma una specie di notaio chiamato a certificare un contratto tra due suoi futuri clienti. Il meccanismo si è semplicemente rovesciato.

Abituati alle leggi del maggioritario quando l’inquilino di Palazzo Chigi era di fatto deciso dal voto, oggi sperimentiamo la difficoltà a rintracciarne l’identikit anche due mesi dopo la fine della partita elettorale. Ma dietro i nuovi riti si leggono vecchi copioni.

L’ingorgo è provocato sia dalla strettoia della mediazione tra i programmi elettorali, sia dalla scelta di chi si metterà al posto di guida. Salvini e Di Maio potrebbero ciascuno rivendicare il ruolo di premier ma è precisamente il braccio di ferro tra i due ciò che per l’appunto provoca «lo stallo» allungando i tempi della trattativa.

Altri giorni sono stati chiesti e ottenuti dall’arbitro Mattarella. Arbitro ma non notaio come ha ben specificato lui stesso commemorando Luigi Einaudi. Anzi, dallo stallo politico sembra emergere un presidente interventista che tiene il timone della lunga e impegnativa navigazione, mentre i partiti stanno in sala macchine. Questo ruolo presidenziale è contestato, più o meno esplicitamente, dal centrodestra per non aver dato subito l’incarico a Salvini.

Il leader leghista, dopo l’incontro la Quirinale, ha calcato la mano contro i governi «fantoccio», contro i trattati europei (ogni riferimento al governo neutrale di Mattarella è voluto), e via elencando su immigrati e armi per tutti.

Come a giustificare la replica di un copione già visto, il capo politico dei 5Stelle ha parlato di «riti della politica che stanno cambiando», spostando poi l’accento sui contenuti del contratto di governo da affidare alla votazione on-line del Movimento (i leghisti andranno ai gazebo) e quindi nelle mani del misterioso esecutore.

Staranno pure cambiando le liturgie della politica, ma per i grillini che fino a ieri alzavano la bandiera di Rodotà, ritrovarsi a caccia di qualcuno che sia mezzo di destra e mezzo di sinistra, un po’ tecnico e un po’ politico, più che un passo verso la terza repubblica dei cittadini sembra un salto indietro verso i riti della prima. E saranno i pentastellati a pagare, domani, il prezzo più salato dell’eventuale compromesso.

Grillo fiuta il pericolo della bonaccia e nella morta gora del momento Grillo gioca la carta della rassicurazione spiegando che «le idee non sono né di destra, né di sinistra» ma solo «buone o cattive». La teoria va molto di moda ma è vecchia come la storia del trasformismo italiano. Oltretutto, sarà pure che cambiano i riti perché c’è un’alleanza post-elettorale tutta da costruire. Ma per chi si vorrebbe appendere sul petto la medaglia del cambiamento intanto non è un bel segnale vedere in tv le immagini di quel tavolo dove si scrive il contratto di governo e scoprire che, se proprio si sforza un po’ la vista, circondata da uno squadrone di giacche e cravatte, siede anche una donna.

La trattativa logora chi la fa e dall’opposizione, con o senza pop corn, Pd e Forza Italia assistono soddisfatti alla difficile quadratura del cerchio tentata dagli avversari. Con accenti di compatimento verso Salvini da parte del centrodestra perché rischia di finire come il due di picche. Con accenti iper-populisti da parte dei renziani che accusano Lega e 5Stelle di pensare solo alle poltrone. Le stesse parole, le stesse critiche che a loro rivolgevano i grillini. Del resto che il Pd sia a corto di idee, ridotto male e probabilmente destinato a finire peggio non è un mistero. Ieri ha perso anche il ballottaggio a Udine.

E mentre qui tutto è stagnante, e sembra nascere già vecchio, una carneficina insanguina Gaza e la coscienza del mondo.