Un secondo caso di deputato positivo al coronavirus aumenta il rischio che quella di mercoledì possa essere per un bel po’ di tempo l’ultima seduta dell’aula della camera dei deputati con il numero legale. Il deputato è oltretutto un questore – Cirielli di Fratelli d’Italia – che per il suo incarico ha continui incontri (anche con un ministro, ha detto ieri) ed è convinto essere stato contagiato alla camera (era presente in aula a fine febbraio). Anche un cameraman che ha lavorato nel palazzo il dal 3 al 5 marzo e ha partecipato a conferenze stampa di diversi politici (Salvini e Di Maio tra gli altri) è risultato positivo al test. La prossima seduta a Montecitorio è convocata mercoledì 18, quella del senato mercoledì 25 e sono previste solo interrogazioni sull’emergenza sanitaria, ma molto presto si porrà il problema di far votare le assemblee.

A cominciare dalle leggi di conversione dei decreti legge. Il governo in verità non ne ha fatti molti, il primo del 23 febbraio è già stato convertito a tempo record, i successivi – del 28 febbraio e del 6 marzo – riguardano interventi settoriali, i tribunali o gli aiuti alle famiglie, che però saranno completamenti rivisti e aumentati con il prossimo decreto che dovrebbe essere varato oggi. Per il resto Conte sta andando avanti a colpi di decreti del presidente del consiglio dei ministri (Dpcm), atti amministrativi che stanno ridisegnando i confini dei diritti sociali senza dover passare per il controllo né del presidente della Repubblica né delle aule parlamentari. Fin qui Conte ha firmato ben 7 Dpcm in 17 giorni (e altri due decreti ministeriali portano la firma dei ministri dell’economia e dei trasporti).

Nella sostanza è già in piedi un «diritto dell’emergenza» che tiene, magari per necessità, il parlamento lontano dal circuito decisorio. E si parla apertamente del fatto che se i (pochi) decreti legge non potranno essere convertiti in tempo (60 giorni) potrebbero eccezionalmente essere reiterati, dal momento che la famosa sentenza della Corte costituzionale che nel 1996 ha chiuso quella che era stata fino a quel momento una prassi ha comunque lasciato aperta una finestra per «nuovi (e sopravvenuti) presupposti straordinari».

In questa situazione prende corpo un dibattito sull’opportunità di consentire il voto a distanza, per permettere ai rappresentanti del popolo quanto meno di controllare l’attività di governo. Proprio la situazione sfilacciata, con tutto il lavoro delle commissioni sospeso, rende improbabile che il dibattito approdi a una decisione, a meno che il precipitare degli eventi non imponga all’ufficio di presidenza una scelta di emergenza. Fin qui il presidente Fico è stato assai cauto sulla possibilità, di cui si era parlato in giunta per il regolamento il 4 marzo, anche sulla scorta dei dubbi avanzati dagli uffici. Nel suo speach aveva confermato l’interpretazione rigida dell’articolo 64 della Costituzione del 1948, in base alla quale la «presenza» obbligatoria dei deputati in aula deve intendersi esclusivamente come presenza fisica. Il voto a distanza «contraddice le stesse caratteristiche essenziali del funzionamento delle camere», aveva detto Fico, citando la presa di posizione del suo predecessore Fini, nove anni fa. Adesso però ci sono ripetute spinte del Pd perché si apra una riflessione sul problema. «Bisogna adottare strumenti che consentano al parlamento di lavorare anche in questi momenti, non è un’eresia la creazione di un diritto parlamentare dell’emergenza», dice il deputato Ceccanti. Ma rappresenta il Pd anche il senatore Zanda, che vede nel voto a distanza «la distruzione del parlamento». Favorevoli invece Fratelli d’Italia e la Lega che ha già presentato una proposta di modifica al regolamento (che però richiede procedure e numeri in questo momento fuori portata).