Gli israeliani di Serie B sono scesi in strada. I palestinesi con cittadinanza israeliana, chiamati arabo israeliani, alzano la voce sull’onda dell’Intifada di Gerusalemme. Da Nazareth a Rahat nel Neghev, da Giaffa sulla costa a Umm el Fahem a ridosso della “linea verde” con la Cisgiordania, migliaia di palestinesi israeliani, in buona parte ragazzi, hanno sfilato e protestato, spesso scontrandosi con la polizia. Scene che non si vedevano dalla seconda Intifada. Non è solo solidarietà con le ragioni della nuova (possibile) Intifada. È anche, se non soprattutto, una protesta contro lo Stato di Israele di cui si sentono parte solo sulla carta, che continua a inquadrarli come una estensione del “nemico palestinese” nei Territori occupati.

 

Una porzione consistente di israeliani ebrei non nasconde di guardare ai cittadini arabi come a una “quinta colonna”, “traditori” pronti a fare il gioco del “nemico”. «E la polizia non manca di farcelo capire in questi giorni», ci dice Mohammed Kabha un giovane attivista della zona di Ara-Araba, nella bassa Galilea. «Compie arresti preventivi ovunque, qui due sere fa sono stati presi sei giovani, tutti con meno di 18 anni», continua Kabha, «più di tutto ha un atteggiamento intimidatorio, lancia pesanti avvertimenti agli abitanti. Le autorità ci vedono come un pericolo perchè siamo palestinesi come quelli dei Territori occupati. Il nostro passaporto è solo un libretto inutile, non saremo mai considerati cittadini veri di questo Paese».

 

In questi giorni per vendicare gli accoltellamenti compiuti da palestinesi, gruppi di estremisti sono impegnati in una vera e propria una caccia all’arabo, di cui la stampa israeliana riferisce, anche se in modo insufficiente, mentre è ignorata dai media internazionali. La polizia ha arrestato ieri cinque dei 30 abitanti di Netaniya, a nord di Tel Aviv, che volevano linciare tre cittadini palestinesi. Due dei presi di mira sono riusciti a scappare, il terzo, Abed Jamal, è stato picchiato dalla folla inferocita che gridava «Morte agli arabi» e «A Netaniya gli arabi si falciano». Si è salvato solo grazie all’arrivo della polizia che, comunque, lo ha ammanettato, nonostate fosse la vittima dell’aggressione, per interrogarlo.

 

«Anche se solo alcuni palestinesi (d’Israele) hanno commesso violenze, alla maggioranza degli israeliani ebrei bastano uno o due episodi per mettere sotto accusa tutti i cittadini arabi» spiega Wadie Abu Nassar, un analista di Haifa, «gli israeliani ebrei non capiscono che per i palestinesi qualsiasi tentativo di danneggiare i loro luoghi sacri, in particolare la moschea di al Aqsa, rappresenta il superamento di una ‘linea rossa’». I palestinesi israeliani, aggiunge Abu Nassar, «simpatizzano con i palestinesi dei Territori occupati non solo perchè sono fratelli ma anche perchè vedono Israele come una potenza occupante».

 

Dieci giorni fa in diversi villaggi palestinesi e a Nazareth hanno commemorato le 13 vittime del fuoco della polizia durante gli scontri divampati in Galilea tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre del 2000, all’inizio della seconda Intifada. Una tragica ripetizione dei colpi che il 30 marzo del 1976 uccisero sei palestinesi durante le manifestazioni contro la confisca delle terre arabe. Morti, quelli del 2000, che sono una ferita mai rimarginata e anche uno spartiacque politico interno, tra coloro che ritengono possibile un riconoscimento pieno della minoranza araba nello Stato di Israele e altri (sempre più numerosi) che chiedono la creazione di uno Stato unico democratico, non sionista. Uno Stato che non approvi più leggi, come quelle promosse dalla destra al governo in questi ultimi anni, destinate a colpire direttamente l’identità e i diritti dei cittadini palestinesi. Sullo sfondo di questo dibattito ci sono i due movimenti islamici (del Nord e del Sud), divisi sul rifiuto/integrazione nel sistema politico israeliano. Ayman Sikseck ieri spiegava su Ynet l’importanza degli eventi del 2000 per la formazione dell’identità degli arabi di Israele «Dopo la delusione generata dal fallimento degli accordi di Oslo – ha scritto – la loro solidarietà con i palestinesi nei Territori occupati è cresciuta… la loro rabbia (di questi giorni) deriva dalla percezione di un destino comune delle due popolazioni discriminate e dalla sensazione di ingiustizia».

 

Di fronte a ciò le formazioni politiche arabe in Israele sono in affanno. La scelta unitaria (Lista Unita Araba, LAU) fatta all’inizio dell’anno per affrontare insieme le sfide lanciate a tutti gli arabi dalla legislazione aggressiva del governo e dei partiti di destra, pur avendo ottenuto un discreto successo elettorale non ha poi portato a nulla di concreto nella vita quotidiana, nella condizione di villaggi e città con minori risorse pubbliche rispetto ai centri abitati ebraici, non ha contribuito ad eliminare le discriminazioni e neppure a fermare il Prawer Plan per il “ricollocamento” (transfer forzato) di decine di migliaia di beduini del Neghev. «Molti dei palestinesi che ora sfilano nelle strade della Galilea non appartengono ad alcun partito, laico o islamista» afferma Mohammed Kabha «anzi, guardano a tutte le forze politiche, di qualsiasi orientamento, come figlie di un fallimento, della mancata comprensione della realtà israeliana. Il partito Jabha (comunista, parte della LAU) organizza iniziative con slogan come ‘Ebrei ed Arabi rifiutano di essere nemici’. Ma più passano gli anni e più la società israeliana e il sistema politico ci considerano corpi estranei, nemici da isolare». Secondo Wadie Abu Nassar la Lista Unita Araba rischia di frantumarsi, di essere sommersa dall’onda dell’Intifada di Gerusalemme. «Mai come in questi giorni sono emerse nella Lista le differenze tra il binazionalismo di Jabha e il nazionalismo del partito Balad (Tajammo). Uno scontro – prevede l’analista – che potrebbe mettere fine all’esperienza unitaria».