All’indomani della nascita di Fca, il nodo del futuro degli stabilimenti italiani della Fiat emerge con tutta la sua forza. Ieri sia la Cgil che la Fiom sono tornate ad avanzare dubbi sulla tenuta occupazionale del nuovo sistema – la galassia di marchi riuniti nel gruppo Fiat Chrysler Automobiles – messo su da Sergio Marchionne. Mentre tiene banco anche un problema non secondario, ma al quale purtroppo non si potrà porre rimedio, perché ormai la decisione è presa: ovvero la perdita di gettito per l’Italia, dato che i proventi delle vendite del gruppo saranno tassati in Gran Bretagna.

Ieri a proposito è intervenuto Attilio Befera, direttore dell’Agenzia delle Entrate: «Dal punto di vista fiscale non posso impedire alla Fiat di fare delle scelte» societarie «che sono economicamente convenienti per loro – ha spiegato – Verificheremo il pieno rispetto delle leggi fiscali italiane».
Ma certo appare assai improbabile che Marchionne e John Elkann, all’atto di compiere il passo del trasferimento delle sedi all’estero (quella legale in Olanda, quella fiscale appunto in Gran Bretagna) non abbiano approfondito gli aspetti legali o esplorato eventuali rischi.

Il fisco inglese è stato scelto perché è il più generoso in Europa rispetto ai dividendi (punto peraltro non da poco per gli azionisti Fiat, visto che nella lunga storia della multinazionale hanno spesso dovuto rinunciare a incassarli).

La legge olandese sulle società, dall’altro lato, dà più peso agli azionisti di maggioranza, rispetto a quanto avviene in Italia: un nodo anche questo «caldo» per gli Elkann/Agnelli, desiderosi (come, ai tempi, loro nonno Gianni e il trisavolo Giovanni, il fondatore del gruppo auto) di tenere saldo il timone della novella Fca.

E se la stampa internazionale, come d’altronde la generalità di quella italiana, ha piuttosto inneggiato al compimento della «fusione del secolo» (Fiat-Chrysler è oggi il settimo costruttore mondiale di auto), in Italia continuano a esserci forti dubbi. «Non abbiamo mai vissuto la scelta di Fiat di fare alleanze internazionali come un problema – ha detto ieri la segretaria Cgil, Susanna Camusso – ma il fatto che dentro l’alleanza non sia chiaro il destino industriale degli stabilimenti italiani: e questa continua ad essere la domanda».

«Noi vediamo la scelta di un’azienda storicamente italiana che decide di ridurre il suo contributo fiscale al Paese», ha rincarato la leader della Cgil.

«È assurdo che Fiat trasferisce la sede fiscale all’estero per ridurre la tassazione e poi quasi la metà dei lavoratori degli stabilimenti italiani del gruppo è in cassa integrazione in deroga – nota Michele De Palma, responsabile auto Fiom – In pratica un lavoratore in cig paga più tasse allo Stato di quante adesso ne pagherà la Fiat. Per i sindacati il problema è che ci sia un futuro. Noi non ci sconvolgiamo se il sito di Termini riapre con un’altra casa automobilistica, mettendo soldi pubblici. Anche perché la Fiat in passato come ha aperto? Le fabbriche fantasma producono auto fantasma che possono essere vendute nell’aldilà».

De Palma ieri è intervenuto all’assemblea che si è tenuta a Temini Imerese, dove ben 1200 operai sono attualmente in cassa a zero ore, in deroga, ammortizzatore che si esaurirà in giugno. Serve quindi una soluzione a breve, cercasi imprenditori. Oggi è previsto un incontro a Roma, al ministero dello Sviluppo.

Infine, breve sguardo alla stampa internazionale. Per il Financial Times, con la nascita di Fca e il trasferimento delle sedi, la società «decide di allontanarsi dall’Italia». Nella Lex Column si sottolinea che il marchio Fiat, senza Chrysler, avrebbe chiuso il 2013 con una perdita netta superiore del 15%, mentre tra analisti e investitori restano i timori per i conti del gruppo. Il Wall Street Journal intitola il suo articolo «Fiat taglia il dividendo e presenta prospettive cupe per il 2014».