Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 la cultura hip hop invade strade, università e centri sociali d’Italia. Una storia iniziata tra danze, murales e ascolto di canzoni in lingua originale, che cambia passo con i primi vagiti di rap in italiano. L’hip hop è l’incontro tra quattro diverse arti: rap, djing, writing e breaking. Oggi i rapper riempiono palazzetti e vanno in televisione; i writers, che vengono perseguiti legalmente, espongono le loro opere in gallerie e musei; i dj vengono osannati come star, e la breakdance è riconosciuta ovunque come stile di ballo. Il tutto sembra essere successo per caso.

Di questa cultura in Italia, infatti, molto poco si è raccontato. Negli ultimi mesi sono stati pubblicati un libro, Strade Strappate, e un documentario, All’Assalto. E poi c’è un documentario che dalla scorsa estate gira da nord a sud, e che s’intitola Numero Zero, alle origini del rap italiano, e in questi giorni arriva anche nelle librerie. Numero Zero ripercorre, in circa 90 minuti, le tracce del primo decennio di storia del rap in italiano, tra interviste ai principali pionieri della scena, immagini d’epoca e la voce Ensi che dà il tempo alla narrazione. Enrico Bisi, regista torinese è l’autore, ha raccolto il materiale, inseguendo e convincendo gli artisti a metterci la faccia, in oltre tre anni. L’idea originaria è dei primi anni 2000, ma la «golden age» del rap era appena finita e non era il momento adatto per raccontarla, soprattutto in maniera oggettiva.
Parlano in tanti, da Militant A a Neffa, da Kaos One a Fabri Fibra, passando per Dee Mo, J Ax e il Danno.

Un lavoro completo e agile che risulta interessante ed esaustivo per chi non sa nulla della scena hip hop italiana, come per chi qualcosa ne sa. La colonna sonora è, ovviamente, parte fondamentale del film, anche perché traccia i contorni temporali della narrazione. «L’hip hop è una storia potentissima, perché va al di là dei gusti musicali che ciascuno può avere. Invade diversi ambiti artistici. Ha a che fare con la musica così come con il writing e con le arti figurative. Ma anche con il ballo e con lo sviluppo del djing. Toccando così tanti segmenti creativi l’hip hop è riuscito ad avere un importanza enorme che, però, forse solo negli ultimi anni si riesce a comprendere» ci dice Enrico.

«Numero Zero non è solo una citazione dei Sangue Misto, significa tante cose. Ho anche scoperto perché Neffa aprì così la canzone Lo Straniero. La spiegazione si troverà nei contenuti extra del dvd. Numero Zero è una sorta di tatuaggio che rappresenta un’intera generazione, la mia. Non significa essere necessariamente esclusi, ma decidere di fare una corsa a parte, essere nello stesso circuito degli altri ma fare corsa a sè. Rappresenta appieno la nascita del rap, il partire da zero. Non esisteva nulla, se non l’esempio americano. Bisogna inventare e inventarsi. Quindi non è solo l’omaggio ai Sangue Misto, il più importante gruppo italiano di quegli anni e forse di sempre». Nel documentario è proprio Neffa, che assieme a Dj Gruff e Deda MD formava l’essemble rap bolognese, a raccontare perché Sangue Misto non registrò mai il secondo disco.

«Un mio compagno di classe mi fece ascoltare Stop al Panico, tra i primissimi pezzi rap incisi in italiano, e mi colpì moltissimo. Assieme al fatto di ascoltare qualcosa che non riuscivo a capire e comprendere completamente perché non era categorizzabile in cose sentite prima». Enrico, a fine intervista aggiunge: «Non ho mai fatto parte della scena hip hop, ero solo un appassionato, forse per questo ho potuto realizzare Numero Zero».