«Bersani deve venire alle camere e parlare al paese. In queste prossime settimane il governo dovrà prendere provvedimenti urgenti. Presto scadranno le casse integrazioni, scade l’Imu, si aggraverà la crisi sociale. E se non facciamo qualcosa subito, rischiamo di dover andare in giro con i giubbotti antiproiettile».

È un Nichi Vendola preoccupato quello che si ferma a parlare con cronisti a Montecitorio. «Un governo tecnico non serve. Ma avete visto cos’è successo oggi in aula?». Ieri pomeriggio in aula va in scena quello che Lapo Pistelli definisce «l’8 settembre del governo tecnico, una pagina che chiudiamo senza rimpianti»: le dimissioni del ministro Terzi per – dice – non aver condiviso la scelta di restituire all’India i due marò italiani.

Tifo da stadio del Pdl, duro rimprovero del ministro della Difesa Di Paola al collega. Ira del Colle, imbarazzo di Monti. Cadono anche gli ultimi finti veli di «responsabilità» dell’esecutivo uscente. Una palese conferma che un altri «tecnici», anche sotto forma di un governo del presidente votato da sinistra e destra, non sono riproponibile.
Proprio per questo Vendola non pessimista. Le emergenze improcrastinabili del paese sconsigliano il voto anticipato. È un punto a favore della nascita governo Bersani. Né Sel sarebbe della partita delle larghe intese.
Al piano di sopra, alla sala del Cavaliere, però, le consultazioni non vanno bene. Bersani incontra la minoranza linguistica, il gruppo misto del senato, il Psi, la conferenza delle regioni, e su suo invito, il presidente della Cei cardinal Bagnasco.

Nel pomeriggio, però, arrivano le brutte notizie: le destre si presentano in un unico blocco Pdl-Lega-Gal. Se questi ultimi due gruppi uscissero dall’aula del senato al momento della fiducia, si raggiungerebbe il «magic number» dei sì necessari a far partire il governo «a doppio registro» (riforme sociali con la propria maggioranza, riforme con tutti).

L’incontro dura una scarsa mezz’ora. All’uscita, le parole del segretario del Pdl Alfano (Berlusconi è impegnato a Milano con i legali della causa contro l’ex moglie) fanno capire che non si è sbloccato niente. «Nessuna preclusione», dice, ma «Bersani deve tenere conto di avere di fronte uno schieramento che ha preso lo 0,3 per cento meno del suo. Non può non tenere conto che il turno elettorale coincide con l’elezione del capo dello stato. Ha 48 ore di tempo ancora per pensarci. Altrimenti si va al voto». Non c’è bisogno di traduzione: il Pdl, come racconta chi ha partecipato all’incontro, è «interessato» alla «convenzione per le riforme». Ma il core business della sua richiesta di «coinvolgimento» è sull’elezione del prossimo inquilino del Colle.
Ma chi parla con Bersani lo descrive fermo sulla posizione di far pesare il fatto che Pdl e Sel hanno da soli i numeri per eleggere, dopo le prime votazioni, il nuovo capo dello stato. Pdl, Lega e Gal hanno promesso di pensarci su. E il leghista Roberto Maroni giura che «agiremo come coalizione», però si incarica di far capire che tutto sommato Bersani premier a loro andrebbe bene: «Auspichiamo che nasca un governo a guida politica. Basta coi governi tecnici». Alfano, prima di lui ma accanto a lui, ha detto il contrario: «O un governo con noi o si va al voto».
I montiani, ultimi delle consultazioni di ieri, chiedono «un ulteriore sforzo per il coinvolgimento di tutte le forze politiche che possono contribuire a avviare la legislatura» (Andrea Olivero). Il segretario Udc Cesa si spinge a consigliare di chiedere al Pdl un appoggio esterno. Ma una cosa è «non impedire» che parta il governo, altra una partecipazione attiva alla nascita del Bersani I.
Lui, Bersani, lo esclude. E resta fermo sulla sua posizione: o me o si vota. «Le difficoltà le avete misurate anche voi», dice a fine giornata rassegnato a salire al Colle, giovedì o comunque in tempo per concludere «attorno a Pasqua», senza «la maggioranza certa» che gli ha chiesto Napolitano. Ma determinato ad andare lo stesso alle camere. C’è un’altra soluzione? Bersani ha posizionato il partito in maniera da sbarrare la strada a un nuovo diverso incarico, che in ogni caso dovrebbe cercare i voti di Pd e Pdl. Se il Pd fosse disponibile,il segretario finirebbe in minoranza: seguirebbe una rottura senza precedenti dentro il partito.
Oggi, la consultazione di M5S, in diretta streaming. Ma da lì, a parole, non arriva niente di buono: ieri si sono riuniti i gruppi di camera e senato e hanno deciso il no alla fiducia, all’unanimità.