Nel Grande disegno, Stephen Hawking ha negato sia a Dio che alla filosofia l’onore e l’onere di rendere ragione dell’universo: solo i fisici – scrive – spiegano adeguatamente il cosmo fornendo risposte concrete alle domande che, da sempre, assillano homo sapiens. La filosofia e la religione, quindi, devono farsi da parte o, quanto meno, abdicare alla loro sempiterna vocazione di comprendere la realtà che ci circonda: il progresso scientifico non ha selezionato i loro strumenti come vantaggiosi. Un verdetto così perentorio non poteva non suscitare aspre polemiche sia nel mondo religioso che in quello scientifico: da Roger Penrose a Umberto Eco, in molti hanno contestato la conclusione dello studioso dei buchi neri scomparso appena un anno fa.

Hawking – è la tesi di Eco – non solo si è servito della filosofia con una mano liquidandola con l’altra, ma gli assunti cui è ricorso per giustificare la sua teoria M sono riconducibili a posizioni filosofiche ben note da tempo: l’olismo e il realismo interno. Secondo Penrose, poi, l’eccessiva sicurezza con cui Hawking ha difeso congetture non ancora confermate tradisce un dogmatismo che non può lasciare indifferenti. Al pari di Dio, anche la teoria dell’inflazione è un’ipotesi in attesa di verifica e, pertanto, ostinarsi a promuoverla malgrado l’assenza di un numero sufficiente di conferme non è un atteggiamento propriamente scientifico se, con «scientifico», si intende, dopo Galileo, il procedere teorico suffragato esclusivamente da convalide sperimentali.
A prescindere dal torto o ragione di Hawking, un fatto esibisce, con forza, la sua evidenza: nel XX secolo si è consumato il divorzio tra scienza e filosofia. Complici la velocità con cui la matematica e la fisica si sono sviluppate – è la tesi di Alain Badiou – o la distinzione, consolidatasi come verità di fatto oltre che di ragione, tra scienze dello spirito e scienze della natura, la filosofia (un discorso a parte andrebbe fatto per la religione) non ha tenuto il passo con la scienza. E sebbene non tutti gli scienziati scommettano sulla sua morte, la maggior parte di loro è convinta che la fiaccola della conoscenza non sia più nelle sue mani.

La sua emendatio antimaterialista
Per il neurofisiologo Wolf Singer la filosofia può sopravvivere solo come un’etica al servizio delle scienze naturali perché, sostengono i filosofi James Ladyman e Don Ross, è la relatività che fonda la metafisica del tempo, allo stesso modo in cui la fisica quantistica fonda quella della sostanza e la chimica e la biologia evolutiva quella dei generi naturali. Eppure, chi giudica la filosofia moribonda trascura le parole con cui Paul Feyerabend, in Sull’orlo della scienza, ci ha ricordato che i fisici di oggi sono sì scienziati brillanti ma, troppo spesso, privi di profondità filosofica. Del resto, a fare la differenza tra un fisico e un altro è proprio la relazione che ciascuno intrattiene con quella prassi nata in Grecia con Talete e formalizzata, nelle sue linee essenziali, per la prima volta da Platone. Ma allora, chi avrà la meglio nel terzo millennio? I fisici o i filosofi?

La scelta di Bompiani di ritradurre Processo e realtà di Alfred North Whitehead (a cura di Maria Regina Brioschi, introduzione di Luca Vanzago, pp. 1364, € 45,00) sembra suggerire una risposta. Fisico e matematico di professione e autore, insieme a Bertrand Russell, dei Principia Mathematica, Whitehead esordì con un trattato di algebra universale, ma concluse la sua carriera con un saggio di cosmologia generale in cui l’istanza filosofica si fonde con la visione scientifica in una metafisica organicistica ispirata da Leibniz e Bergson. Il suo approdo alla filosofia non fu affatto – come disse Russell – il precipitato della tragica morte del figlio durante il primo conflitto mondiale, perché è lungo tutta la sua vita che, ostile a ogni riduzionismo di stampo meccanicista, Whitehead maturò una crescente insoddisfazione nei confronti dei metodi impiegati dalle scienze a lui contemporanee e dei risultati inevitabilmente insufficienti cui pervenivano. «Materialismo» è l’etichetta con cui bollava l’insieme delle assunzioni scientifiche e filosofiche errate e, contro di esse, intraprese una vera e propria emendatio intellectus. Convinto che il peccato più grave di cui si macchiavano la fisica e la geometria del suo tempo fosse il sacrificio dell’esperienza immediata a vantaggio delle astratte semplificazioni offerte dalla matematica, Whitehead si impegnò a rifondarle su basi percettive. Il suo obiettivo era chiarire il dato immediato attraverso un’analisi categoriale generale ma rigorosa: un’analisi di cui solo la filosofia è capace.
Un tessuto di relazioni
Whitehead paragona la filosofia a un volo d’aeroplano. Caratteristica della sua intrinseca veggenza è un’intuizione in grado di isolare i caratteri universali e necessari dell’intera esperienza senza, tuttavia, tralasciare nulla di ciò che, quotidianamente, è oggetto di osservazione. L’esperienza è tutto ciò di cui abbiamo coscienza e, se nulla è escluso, è perché nulla, per Whitehead, è solo quel che è. Nessun fatto è solo sé stesso: ogni entità è un evento più che una sostanza, un campo anziché un punto, e lo è perché è in relazione con tutte le altre e perché queste relazioni la costituiscono. Che la realtà sia un processo – come suggerisce l’endiadi del titolo – significa che ogni cosa è in ogni cosa e che, pertanto, non c’è nulla nella natura che possa esser localizzato «semplicemente» senza essere al tempo stesso mancato. «Natura» significa «passaggio», «solidarietà» di tutto l’universo, e se si prescinde dal tessuto che connette tutte le cose si cade in quella che Whitehead definisce «fallacia della concretezza mal posta», ossia l’errore, così comune tra i fisici, di credere che la porzione del cosmo sulla quale si effettuano le misurazioni esista indipendentemente dalla concrescenza da cui è estratta.
L’universo in laboratorio è, appunto, un universo in laboratorio: non l’universo in quanto tale. A quest’ultimo si rivolge, da sempre, la filosofia quando è metafisica, ma ad esso deve indirizzarsi anche la fisica secondo Whitehead. La cosmologia cui fa riferimento il sottotitolo del suo opus magnum è, infatti, la cosmologia nel senso greco del termine, e «greco» vuol dire «platonico».

Il suo discorso allora inattuale
Whitehead è un presocratico sopravvissuto alla rivoluzione scientifica. Il suo discorso, spiega, è quello che «Platone e Aristotele avrebbero fatto se fossero vissuti al suo tempo», dunque un discorso che, pronunciato a Edimburgo durante le Gifford Lectures, colpì per la sua inattualità. Arcaico perché prekantiano e avveniristico perché post-einsteniano, il pensiero di Whitehead investe ogni cosa che è. Nella sua ontologia generale ogni ente ha il suo posto, dalle pietre a Dio: con una mossa davvero copernicana, Whitehead riformula il principio soggettivistico fondante la scienza e la filosofia moderne. La coscienza, ci insegna, presuppone l’esperienza come qualcosa di più fondamentale, qualcosa che Whitehead chiama «perenne» per dire che è, a un tempo, mortale e immortale, cangiante e permanente, eracliteo e parmenideo. Di un simile volo aveva bisogno, nel ‘29, la meccanica quantistica per essere compresa; dello stesso volo ha bisogno, oggi, la teoria del tutto per essere pensata.