Gli ultimi due concerti del “südtirol festival merano . meran” che si è chiuso il 19 settembre sono stati entrambi applauditissimi, per il primo c’era la Mahler Chamber Orchestra per eseguire la Sinfonia n. 31 in re maggiore di Joseph Haydn suonandola in maniera “autodiretta”, nel senso che essendo l’orchestra composta da musicisti di prim’ordine provenienti da tutto il mondo hanno talmente interiorizzato il ritmo dettato solitamente dalla bacchetta di un direttore d’orchestra che riescono a suonare anche senza essere diretti “dall’esterno”. Nei brani successivi, due composizioni per pianoforte e orchestra, rispettivamente il concerto n. 5 in fa minore di Bach e il concerto n. 2 in fa maggiore op. 102 di Shostakovich, la Mahler era con la pianista cinese Yuja Wang, una vera bomba energetica, le cui dita scorrevano sui tasti alla velocità della luce mentre il corpo era teso verso le melodie che stava creando. Unica davvero nel suo stretto abito nero durante il concerto di Bach e in quello verde smeraldo per la composizione di Shostakovich, seduta davanti allo splendido Steinway a coda, contornata da violini, viole e contrabbassi, ha saputo entrare in un dialogo musicale inebriante soprattutto nel corso del secondo brano dettato dai tempi allegro, andante e allegro. Ma furono i tre bis a mandare in visibilio il pubblico: per quanto fosse stato sensuale il primo, tanto erano scintillanti ed esplosivi nelle tonalità i successivi, dove i suoi capelli nero blu a caschetto avrebbero potuto prendere il volo da un momento all’altro, mentre le dita dominavano la tastiera come forti artigli di un drago.

L’ULTIMA DATA era destinata alla Mariinksy Orchestra di San Pietroburgo diretta dal 1988 da Valery Gergiev, il quale sin da allora ha condotto a nuove glorie l’orchestra più antica della Russia fondata oltre duecento anni fa ai tempi degli zar. A Merano ha eseguito musiche di Prokofiev e di Schubert, due composizioni che furono entrambe censurate nel periodo in cui furono scritte. Sergej Prokofiev era andato a vivere a Mosca nel 1936, dopo essersi sentito troppo “straniero” a Parigi perché di origini russe, quando la “Pravda” stroncò l’avanguardia musicale del periodo definendola “caos” e “falsificazione della sensibilità di un balletto”, per cui il suo primo “grande dipinto musicale” –come aveva chiamato le composizioni che volle donare al pubblico sovietico all’insegna della politica culturale dettata ai tempi- in cui aveva cercato di rappresentare musicalmente sia lo spirito nuovo che l’uomo nuovo immaginato dalla rivoluzione nelle musiche del libretto-balletto ispirato allo shakespeariano Romeo e Giulietta fu subito censurato. Non direttamente, semplicemente non c’era teatro che ebbe il coraggio di metterlo nel cartellone. Alla fine ne fece una Suite per orchestra, la Suite Romeo e Giulietta op. 64, la cui prima raggiunse il successo che sperava, tanto da farne una seconda e una terza, mentre il balletto dopo grandi successi nei paesi anglosassoni ebbe la sua prima a Leningrado nel 1940. E ne abbiamo avuto prova!

LO STESSO DESTINO vale per la Sinfonia n. 9 in do maggiore di Franz Schubert, eseguita con energica maestosità dalla Mariinsky, grazie alla particolare interpretazione della partitura da parte di Gergiev, che era stato anche a capo della Rotterdam Philharmonic e della London Symphony Orchestra (dal 2007 al 2015). Se Robert Schumann non fosse andato a trovare il fratello di Franz a Vienna, il quale gli mise a disposizione il lascito di quest’ultimo, questa meravigliosa sinfonia sarebbe andata a finire chissà dove. Fu già negli anni venti dell’Ottocento che Schubert si era immerso nei ritmi delle grandi sinfonie romantiche, troppo presto per vedere il successo che avrebbe riscosso poi vent’anni dopo, a morte già avvenuta del compositore austriaco suo malgrado giudicato come “emulatore delle melodie di Beethoven”. Pubblico e critica non erano ancora pronti per l’ascolto di questa musica raggiante di luminosità e di energia creativa, un genere che poi avrebbe avuto grande evoluzione nel corso di quel secolo. Valery Gergiev con la sua Mariinsky l’ha traghettata a noi, oggi, e lo ha fatto soprattutto nel bis concesso dopo il primo lungo applauso con un brano dal Pipistrello di Strauss con tanto di Valzer del Danubio blu, e che al ritmo delle sue mani suonava come una danza jazz nella Vienna degli anni venti del Novecento, nel pieno liberty e dei vari Klimt, Schiele e della scuola viennese del Bauhaus.