Arriva in Smart sgommando davanti palazzo Chigi, se ne va svelto verso il Nazareno e scivola nella sede del Pd senza dire una parola. Si direbbe teso, sulle prime lo descrivono però piuttosto rassicurato dall’incontro con Enrico Letta. Tanto che poco dopo dal partito si fa sapere che il faccia a faccia è stato «positivo». Commento che sembra scendere da un universo parallelo a quello dove abita l’attuale presidente del consiglio dal quale subito dopo il summit viene emesso invece un bollettino di guerra che descrive un muro contro muro.

E’ la conferma che Letta terrà nel pomeriggio la conferenza stampa annunciata il giorno prima e che in quella sede presenterà l’«Impegno Italia», il suo programma di governo, che fa andare su tutte le furie il segretario del Pd. Il presidente del consiglio non lo avrebbe avvertito, era rimasto sul vago prendendosi ancora un po’ di tempo, secondo le ricostruzioni di parte renziana. E non aveva risposto subito picche alla proposta di risolverla senza troppe complicazioni, magari con un bel trasloco al ministero degli esteri in vista di un incarico europeo. Così Matteo Renzi si affida al solito twitter: «Leggo tante ricostruzioni sul governo. Quello che devo dire, lo dirò domani alle 15 in direzione. In streaming, a viso aperto». Il leader del Pd è carico, riunisce i fedelissimi, si prevede tempesta per lo showdown di oggi al Nazareno, davanti al partito e agli spettatori.

Nel corso della giornata il termometro sembra abbassarsi, al Nazareno si pensa a un modo per indicare a Letta la porta, certo, ma senza troppe ruvidezze. Compito arduo, per Renzi, si sa. La minoranza del partito in mattinata lavorava anche a un documento da mettere ai voti, per certificare la sfiducia. Tra i renziani che in Transatlantico commentano la giornata campale, c’è chi, come Roberto Giachetti, butta lì: va bene, potremmo pure mandare Letta in parlamento a prendere la fiducia, ma poi non si farebbero più sconti su nessun provvedimento. Il giovane turco Matteo Orfini spiega perché bisogna cambiare verso al governo: «A Saccomanni avevamo chiesto di di destinare le risorse che saranno ricavate dalle privatizzazioni non solo alla riduzione del debito, ma allo sviluppo. Sarebbe stato almeno un segnale, non è arrivato neanche quello». Insomma, ultima fermata per Letta.

Lo sfratto all’inquilino di palazzo Chigi sembra questione di ore, quelle che separano dalla direzione del Pd. La conferenza stampa del premier complica però le cose. Al Nazareno accorrono i dem. Il ministro renzianissimo Graziano Del Rio è lì dal pomeriggio, lo raggiunge Dario Franceschini, dopo aver inutilmente cercato di convincere Letta a farsi da parte. Poi accorrono il capogruppo del senato, Luigi Zanda, e subito dopo quello della camera, Roberto Speranza. Che la conferenza stampa di Letta abbia costretto a rivedere i piani con attenzione lo dimostrano anche precisazioni come quella della renziana responsabile riforme del partito Maria Elena Boschi. Aveva detto che «le elezioni restano la strada principale, altrimenti la soluzione migliore è quella di Renzi» a palazzo Chigi. Intervista rilasciata prima dell’intervento di Letta, precisa poi l’ufficio stampa. Alternative a quelle elencate da Boschi, posto che le elezioni vengono liquidate da Giorgio Napolitano con un «non diciamo sciocchezze»?.

Un altro renziano, Ernesto Carbone (quello che l’ultima volta aveva prestato a Renzi un’altra Smart blu, ma poi ha fuso il motore), insiste nel prendere di petto il premier: «Parla di programma senza scadenze, il suo unico obiettivo è restare a Palazzo Chigi. Altro che i 18 mesi per le riforme. Gli italiani non possono aspettare un altro anno con il tirare a campare dei programmi dai buoni propositi». Mentre dalla minoranza Gianni Cuperlo spiega che dopo l’intervento di Letta «non è possibile nascondere la grande preoccupazione per la piega che ha assunto il confronto. Tocca al segretario dire parole di chiarezza, ascolteremo la sua relazione e ci comporteremo il con il senso di responsabilità proprio non di una minoranza ma di un gruppo dirigente impegnato a lavorare per l’unità del Pd». Insomma, si seguirà Renzi. Ma non si parla più di documento della minoranza, effettivamente preoccupata, anche perché teme le urne. Il «rottamatore» sfidato dal premier a fare l’elefante in cristalleria non si tira indietro. Ritiene che in ogni modo, visto che il premier ha ipotizzato un Letta bis, sarebbero le consultazioni a dirgli prego, quella è la porta. Spera che nella notte Letta si convinca a ingranare lui la retromarcia, per evitare che sia il partito a doverlo sfiduciare, perché così comunque sarebbe. Ma nessuna retromarcia verso palazzo Chigi. «Ormai il treno è partito», dicono i suoi. E qualcuno ripensa all’immagine descritta nel pomeriggio da Beppe Fioroni: Letta e Renzi? «Due treni che si scontrano a 400 all’ora».