C’è una incisione del pittore Howard Helmick di fine Ottocento che ritrae una festa in una villa del Maryland rurale. Giovani ragazze fanno da corona mentre una donna e un uomo danzano frenetici al suono di un violinista. Gli invitati alla festa sono bianchi, il violinista è nero. Tutti i personaggi impegnati nel ballo sorridono e si divertono, tranne il musicista . Ci si imbatte in questa incisione sfogliando La musica dei neri americani, studio fondamentale della musicologa (e prima docente nera di Harvard) Eileen Southern. Collocata nel capitolo intitolato Canti in una terra straniera (1619-1775), racconta i primi passi della musica afroamericana. La data iniziale fa riferimento a un fatto storico notissimo, pilastro dell’epopea americana: l’arrivo nel 1619 di una nave da guerra olandese che vendette i primi venti schiavi neri alla colonia di Jamestown, fondata dalla Virginia Company nel 1607 e attiva fino a quando il territorio passò alla corona inglese (1624). I primi schiavi neri arrivarono dunque un anno in anticipo sui padri pellegrini della Mayflower (1620) e ben prima che la Virginia assumesse la fisionomia di territorio adatto alla monocultura del tabacco (visto che non si era trovato l’oro). Per quale ragione la musica dei neri dovrebbe essere considerata «straniera»? Dal punto di vista temporale gli afroamericani sono abitanti dell’America alla pari dei coloni europei. Certo gli schiavi erano africani rapiti e costretti ad attraversare l’oceano in catene e quindi tecnicamente si trattava di americani controvoglia. Eppure solamente il pregiudizio razziale più feroce può consentire il perpetuarsi di questo status quo di subordinazione per centinaia di anni (e condizionare pesantemente anche la storia della musica).

LUOGO COMUNE

Dire che il razzismo rappresenta un fenomeno endemico negli Stati Uniti è un luogo comune. L’incredibile è quanto sia inscalfibile questo peccato originale che ha caratterizzato il nuovo mondo, la terra delle opportunità, il paese dove l’uomo avrebbe realizzato i propri desideri, dove il diritto alla felicità è sancito come innato e «inalienabile» fin dalla carta costituzionale. La legge purtroppo non è uguale per tutti e «gli altri» devono trovare delle vie di fuga che consentano l’acquisizione di spazi individuali «nonostante» il razzismo.

La musica, lo sport, le arti performative per molti rappresentano un accesso all’ascensore sociale e un possibile modello di vita per sentirsi meno «stranieri». Ricostruendo la sua formazione umana e sportiva, Kareem Abdul-Jabbar ricorda come la segregazione e il razzismo nel basket avessero impedito a molti atleti neri in erba di venire allenati dai coach bianchi di maggior talento, il cui approccio era più formale e scientifico. I giocatori neri per cavarsela cominciarono così a improvvisare. Dalla sensazione di chiusura in un angolo, come gesto atletico per sfuggire a un destino di oppressione nasce ad esempio il «gancio cielo»: un volteggio che rompe l’accerchiamento e manda la palla a canestro ripagando Kareem delle vessazioni subite in allenamento. Il punto a basket, il colpo del ko nel pugilato, la giocata agile nel baseball, il passo di danza che ribalta vecchie coreografie, la hit che sbaraglia le classifiche musicali, sono altrettanti luminosi esempi di come i neri abbiano saputo fare cultura e spettacolo muovendosi in un territorio ostile, pieno di barriere alzate da razzismo, violenza sociale, svantaggio economico. Se si pensa che il rapporto tra musica e politica sia un affaire anni Sessanta, Questlove, batterista dei Roots porta nel suo libro Musica è storia (se ne parla diffusamente più sotto, ndr) esempi che smentiscono quest’idea. Partendo dal suo anno di nascita, il 1971, elenca una sfilza di pezzi che hanno cambiato la storia della musica popolare e del mondo; per iniziare, con tutto il soul, il jazz e il funk a disposizione tra cui scegliere, il primo brano evocato è uno strano rock mantra, There Comes a Time dei Tony Williams Lifetime, dall’album Ego. Indubbiamente Tony Williams – batterista e genio-bambino del secondo quintetto di Miles Davis – è un must per chi suona lo stesso strumento, ma fin dalle prime scelte è chiaro che qui non scherza. L’anno successivo, il 1972, celebra Superfly, la colonna sonora di Curtis Mayfield che riscatta varie nefandezze musicali composte in nome e per conto del cinema blaxploitation. Come non indugiare su brani come Pusherman o Freddie’s Dead? Seguono Bill Withers, lo «Springsteen nero», un artista oggi ingiustamente in ombra e ovviamente James Brown, eroe dell’annata 1974 legato a doppio filo allo storico incontro di boxe che vide in Zaire Muhammad Ali sconfiggere George Foreman.

L’anno 1976 fornisce l’occasione per parlare di due musicisti tra loro legati che sono stati in grado di cambiare la storia: di Stevie Wonder si commenta Sir Duke, un omaggio scoperto a Duke Ellington. Questo riporta a galla un fatto di cronaca: l’incontro tra il presidente Nixon ed Ellington in occasione del conferimento a quest’ultimo della medaglia della libertà. Fu poi un altro presidente repubblicano, Reagan, che – anche in seguito alle pressioni di Stevie Wonder e del brano Happy Birthday – firmò la legge che rendeva festa nazionale il giorno del compleanno di Martin Luther King.

DECENNI

Cambio di decennio. Nel 1982 l’Argentina invade le isole Falkland, la AT&T viene scorporata dall’antitrust, l’inverno particolarmente rigido porta una bufera sugli Stati Uniti nordorientali denominata Cold Sunday, esce nelle sale E.T. L’extraterrestre e… c’è martedì 30 novembre. In quel giorno un’opera in grado di sconvolgere la cultura dell’epoca, venne presentata al pubblico. «No, non sto parlando di Gandhi, il biopic di tre ore sul leader e pacifista indiano Mahatma Gandhi, al debutto in una sala di Nuova Delhi quello stesso martedì e destinata a vincere otto Oscar. No, l’opera d’arte di cui parlo durava appena quarantadue minuti, e venne diffusa in tutto il mondo contemporaneamente. Sto parlando di Thriller», dice Questlove. Che discute l’operato di Michael Jackson in lungo e in largo, come merita questo monumento della black music. Un altro nume arriva sempre negli anni Ottanta e comporta una digressione. «Una delle versioni più classiche della teoria storica del grande uomo è quella di Thomas Carlyle, in particolare quella che si trova nel suo libro Gli eroi. Il culto degli eroi e l’eroico nella storia. È del 1841. All’epoca non ero in vita, ma immagino che il mio coautore Ben Greenman lo fosse, perché è stato lui a metterla sul piatto. Carlyle vedeva la storia come un disordine caotico a cui veniva data forma e direzione dagli “eroi”».

Gli esempi gettati sul tappeto sono Shakespeare, Napoleone, Einstein, Picasso, Edison, Franklin Delano Roosevelt, Henry Ford. Poi il batterista chiosa: «Carlyle proponeva sei tipi di eroi: dèi, profeti, poeti, preti, filosofi e re. In vari momenti della sua vita Prince ha ricoperto ognuno di questi ruoli». L’anno era il 1987 e il disco di Prince era Sign o’ the Times. Altro salto temporale. I primi anni Duemila segnano il dominio nella black music di un collettivo aperto, conosciuto come Soulquarians, costituito in tempi e modi fluidi dai cantanti-compositori D’Angelo, Erykah Badu, Bilal, dal produttore J Dilla, dai rapper Q-Tip, Common, Mos Def, dallo sfortunato trombettista Roy Hargrove (1969-2018), dal bassista Pino Palladino e da Questlove in veste di batterista-produttore. La ventata di black music imposta da questa scena coesa ha prodotto capolavori come Voodoo di D’Angelo, Mama’s Gun di Erykah Badu e Like Water for Chocolate di Common.

CERTEZZE

Questlove elenca anche le proprie certezze: «Credo di essere abbastanza informato su quali album si possano considerare dei classici. (…) Mi sento sicuro di me quando li consiglio. So quali album di Stevie Wonder si elevano sul resto e quali sono trascurabili, e lo stesso vale per Prince. So come affrontare i Public Enemy o Chaka Khan, Minnie Riperton o Mavis Staples, Michael Jackson e ancor più Janet. Ma nel momento in cui ti avvicini al presente, ti cala addosso quella stessa nube di incertezza. (…) L’ultimo disco su cui non ho dubbi di questo genere è Voodoo di D’Angelo, del 2000. Anche a Donuts di J Dilla, uscito nel 2006, è stato ormai attribuito lo status di classico, ma so che i miei sentimenti verso quel disco non si possono separare in maniera netta da ciò che provo nei confronti della sua prematura scomparsa. E tuttavia dobbiamo mantenere affilate le nostre facoltà critiche, che si parli di avvenimenti di un secolo fa, selezionati da generazioni di accademici e analisti, oppure di qualcosa che è accaduto questa mattina».

La musica nera è un continuum ciclico, dove l’hip hop tocca il jazz o le radici blues e il cerchio si chiude. Serve qualcosa di simbolico che lo testimoni in maniera visiva. Art Kane nel 1958, su incarico di Esquire, decise di creare il ritratto jazz definitivo. Radunò decine di musicisti sugli scalini di un edificio in pietra rossa di Harlem. Vennero tutti: Dizzy Gillespie, Count Basie, Thelonious Monk, per un totale di 57 grandi del jazz. La fotografia di Kane fece la storia e fu al centro di un documentario nominato all’Oscar, A Great Day in Harlem (1994) di Jean Bach. Quel ritratto costituisce anche il motore della trama di The Terminal (2004), il film diretto da Spielberg con Tom Hanks nei panni di un appassionato che gira con quello scatto in tasca; con il mito del jazz americano piegato in quattro per onorare un voto fatto al padre in punto di morte. 40 anni dopo la fotografia di Kane, la rivista XXL decise di realizzare un ritratto di gruppo per il genere hip hop. Venne ingaggiato il fotografo e regista Gordon Parks (quello del film Shaft), il quale nel 1995 aveva realizzato un sequel dell’originale di Kane, radunando dieci dei dodici musicisti ancora in vita e fotografandoli nuovamente davanti allo stesso edificio sulla 126esima Strada, nel cuore culturale di Harlem, a due passi dall’Apollo. Stesso luogo del ritratto di gruppo hip hop scattato nel settembre 1998, presenti Questlove e i Roots al completo insieme a Run-DMC, Wu-Tang Clan, Rakim, Fat Joe, Da Brat, E-40 per un totale di 177 partecipanti. Cambiano le riviste, i generi musicali, gli artisti, i numeri, i fotografi. Cambia tutto, ma il cuore pulsante della cultura nera è ancora la musica che si fa fotografare davanti a un palazzo in mattoni rossi di Harlem.

La copertina del libro di Questlove, «Musica è storia» uscito da Jimenez

IL LIBRO

«Concepisco l’America in cui viviamo come una serie di canzoni (…). Se ripenso alla mia infanzia, quasi ogni avvenimento è legato a una canzone». I genitori di Ahmir Khalib Thompson, in arte Questlove, erano musicisti in una cover band e la loro casa si riempiva continuamente di 45 giri con le novità del momento. Quando gli adulti avevano rinverdito la scaletta del gruppo il bambino poteva giocare con i vinili inutilizzati e assorbire canzoni di ogni genere. Qui ha origine il titolo-equazione scelto da Questlove per il suo libro Musica è storia (traduzione di Alessandro Besselva Averame, Jimenez, pp. 386, euro 24).

Questlove nasce nel 1971 e da subito il mondo inizia a nutrirlo di fatti storici (piccoli o grandi) e di musiche (meravigliose, discrete o brutte). Il corpo umano assorbe tutto diventando una sorta di «setaccio», secondo la metafora scelta per raccontare il filtro che trattiene solo quanto è fisiologico passi alle generazioni future. Il genere praticato è quello del memoir: l’autore ripercorre i suoi primi cinquant’anni (l’edizione originale è del 2021), tracciando un profilo dove la storia americana nel suo complesso, fatta di presidenti, scoperte tecnologiche, eventi meteorologici e sportivi, programmi tv, premi Oscar, qualche guerra qua e là, insegue proprie melodie, dove ciascun fatto si trova nei ricordi avvinghiato a una canzone.

RUOLO DETERMINANTE

La cronologia di un mezzo secolo a cavallo tra i millenni viene ripercorsa attraverso la lente della cultura pop. Il personale è politico si sarebbe detto un tempo; adesso, senza troppi proclami, la vita diventa musica e interagisce con il mondo esterno: una prassi per fare cultura e attivismo sociale. Siamo nel regno della saggistica creativa, dove la biografia del protagonista entra nella materia viva. La black culture vanta il recente esempio del volume di Hanif Abdurraquib Piccolo diavolo in America, dove si rovescia la prospettiva dell’invisibilità razziale dell’afroamericano: quel corpo che può essere preso a colpi di pistola da un qualunque poliziotto suprematista e al quale vengono negati diritti primari è invece celebrato quando si entra nella sfera delle arti performative. Abdurraqib rilegge la storia nera a partire dalle performance «corporee» e la musica in questo percorso gioca un ruolo determinante, come accade a Questlove. Quest’ultimo per il suo lavoro ha voluto un co-autore da blockbuster come Ben Greeman, abituato a muoversi tra fiction e non e che in campo musicale ha già collaborato con Brian Wilson e George Clinton.

L’ALTRA WOODSTOCK

Non deve essere stato semplice trovare il modo di far sedere Questlove a scrivere il libro: il nostro non è solo il batterista dei Roots e il direttore della band del Tonight Show di Jimmy Fallon. Stiamo parlando di un personaggio tra i più indaffarati dello showbiz statunitense come produttore discografico (del meglio della black di oggi: Common, D’Angelo, Jay Z, Erykah Badu, Bilal, John Legend e del pop internazionale con Amy Winehouse, Elvis Costello), autore di colonne sonore e giornalista. Ha suonato alla cerimonia degli Oscar, alla Casa Bianca e tenuto dj set ovunque. Lo scorso anno ha debuttato come regista del documentario Summer of Soul vincendo istantaneamente un Oscar e una carrettata di altri premi ma soprattutto cambiando una pagina di storia della musica sbagliata da troppo tempo. La Summer of Love culminata sui prati di Woodstock aveva una gemella soul che si era svolta in contemporanea in quel di Harlem, dove più di trecentomila persone avevano assistito a una serie di concerti indimenticabili, cuore della cultura afroamericana di fine Sessanta. Sul palco del Mount Morris di New York (ora Marcus Garvey Park) erano saliti Stevie Wonder, Nina Simone, Sly & The Family Stone, Mahalia Jackson, B.B. King, Mongo Santamaria, The 5Th Dimension. Una Woodstock nera che finalmente trova spazio nella narrazione dei Sixties.

In Musica è storia Questlove svela il ruolo centrale che la musica americana ricopre su questioni di etnia, genere, politica. Si concentra sugli ultimi cinquant’anni: con spirito critico e azzardando connessioni. Ne escono rimodellati vari luoghi comuni: l’identità nera durante l’era del cinema blaxploitation, la catena di montaggio della disco music, certi punti fermi del canone pop. E ancora: quale artista afroamericano ha mai parlato prima con onestà intellettuale degli Steely Dan o dei Police? Questlove scova relazioni sorprendenti oltre gli stereotipi e modella playlist che toccano hip hop, funk, pop soul, jazz, rock.