Fuori c’è il luglio torrido e la stagione balneare a pieno regime della riviera adriatica. Vestito di nero, immobile, con gli occhi chiusi, Dan Kinzelman è in piedi dentro un confessionale, nella penombra di San Domenico, chiesa nel centro storico di Fano riconvertita in pinacoteca. Con appuntamenti pomeridiani denominati «Gli echi della migrazione», dal 2016 Fano Jazz By The Sea invita a riflettere su un fenomeno epocale dei nostri giorni. La scelta della dimensione del solo è fortemente allusiva: «perché quando sono in balia del mare – spiega il direttore artistico Adriano Pedini – i migranti sono soli». Il legno dell’arredo scelto da Kinzelman per un momento di raccoglimento iniziale suggerisce quello dei barconi, ma, incorniciando un corpo immobile, evoca anche un esito tragico. Il giovane musicista statunitense, che da ormai diciassette anni vive in Italia, comincia a muovere qualche passo alle spalle del pubblico, suonando assorto il clarinetto, come rimuginando, con qualche impennata più drammatica qua e là: note lunghe, in successioni piuttosto spaziate, in modo da sfruttare l’acustica della chiesa e di far respirare i suoni nello spazio.
Kinzelman si sposta lentamente, e gli ascoltatori via via ricevono la musica da diverse distanze e angolazioni; passa al sax tenore, e quando per un tratto comincia a suonare forte, con la risonanza della chiesa il suono in acustico riempie lo spazio in maniera molto potente, fortemente coinvolgente. Poi con la tecnica della respirazione circolare Kinzelman prosegue senza soluzione di continuità con suoni prolungati, quasi in una pratica meditativa per sgombrare la mente da pensieri superflui e concentrarsi, e nei suoni c’è un senso di essenzialità ma anche tonalità di un dramma. Mezz’ora di performance, al termine della quale Kinzelman è esausto.

Il legno dell’arredo scelto da Kinzelman per un momento di raccoglimento iniziale suggerisce quello dei barconi, ma, incorniciando un corpo immobile, evoca anche un esito tragico

IL SUO SOLO è diametralmente agli antipodi dell’esibizione, la sera prima, alla Rocca Malatestiana, del gruppo di Louis Cole: e non tanto perché la performance di Kinzelman è austera, emotivamente impegnata, quanto lo show di Cole è sbarazzino e giocoso, ma perché il solo di Kinzelman è organico, coerente, mentre il gruppo di Cole gioca sulla frammentarietà e sul calo della soglia di attenzione. I brani sono concisi, e tagliano corto con repentini cambi di registro: c’è una canzone con un bel respiro melodico, ma invece di adagiarcisi dopo poco si passa di colpo ad un frenetico assolo di batteria e poi, di netto, stop, il pezzo è finito: come se Cole volesse aderire all’impazienza di chi oggi va su Youtube e assaggia i brani saltando delle parti per vedere, senza stare ad ascoltare tutto, se più avanti succede qualcosa d’altro, e Cole sembra voler giocare d’anticipo su questa impazienza.

Louis Cole Band, foto di Andrea Rotili

BATTERISTA, tastierista, vocalist e compositore di Los Angeles, Cole è uno spilungone che per togliere fin dall’inizio ogni dubbio sul fatto di essere un tipo easy e così la sua musica, si presenta con short rosa shoking abbinati a calzini neri, camicia gialla, occhialoni scuri; con alle tastiere Chris Fishman, che ha un ottimo curriculum (Joshua Redman, Wynton Marsalis, Terry Lyne Carrington), con al basso e, in alternanza con lui, alla batteria Nate Wood, noto per la sua militanza in un brillante gruppo come Kneebody, e con due vocalist/ballerine, una delle quali è Geneviève Artadi, con cui ha un fortunato duo, Knower, Cole ha proposto un’esibizione che si è mossa divertita fra pop e funk, in cui di jazz non c’era sostanzialmente neanche l’ombra: ma che a parte questo è stata a suo modo divertente e anche interessante, e con tripudio finale del pubblico di giovani che ha richiamato. Però sarebbe stato decisamente più pertinente, dato il contesto, proprio Knower, che è un progetto funk-rock-jazz anfetaminico che ha delle cose da dire, e che sarebbe stato certamente stimolante verificare dal vivo.
Nato nel 1993, e arrivato quest’anno al rispettabilissimo numero di trenta edizioni (dopo non essersi fermato neppure nel 2020 e 2021), con un trittico collocato nelle prime serate Fano Jazz By The Sea ha voluto sondare delle proposte che attirano un pubblico giovane che è diverso e più ampio rispetto a quello – non molto numeroso non solo in Italia – della stessa fascia generazionale che ha invece una motivazione specifica per il jazz e l’improvvisazione: e oltre a Cole ha presentato Sons of Kemet e Nubya Garcia.

MA SE SONS OF KEMET (di cui ha scritto ieri da Roma Luigi Onori), quale che sia il giudizio, ha però in ogni caso un suo carattere contemporaneo e una sua originalità, Nubya Garcia non sembra uscire da un utilizzo del jazz conformista e restaurativo. Al tenore, con validi accompagnatori a tastiere/piano, contrabbasso e batteria, Garcia appare una sassofonista mediocre, che rimane abbondantemente legata, e in maniera piuttosto facile, al dato melodico, senza saper offrire una vera articolazione improvvisativa e emotiva: la sua è in definitiva una forma di easy listening, e neanche sofisticata.