Impressioni di settembre mantiene inalterato – a 45 anni dall’uscita – tutto il suo fascino. Una canzone diventata una delle espressioni più intelligenti del pop progressive italiano, cocktail perfetto giocato su una frase di moog fonte di ispirazione per molti ancora oggi. La Pfm – e tutti i membri che sono nel frattempo entrati e usciti dal gruppo, da Di Cioccio a Calloni, passando per Piazza, Mussida e Djivas – ha però dimostrato una capacità di scrittura e soprattutto esecutiva che non si è smarrita (magari non sempre centrando il bersaglio) nel corso del tempo, grazie a progetti di ampio respiro e a performance live, vero punto di forza della band.

 

 

Stesse doti riversate anche nel nuovo disco appena uscito – Emotional Tattoos (InsideOutMusic/SonyMusic) – il primo di inediti dopo 14 anni durante i quali la Pfm ha realizzato progetti collaterali, fra cui Pfm in classic (2015) dedicato al repertorio dei principali compositori di musica classica europea, riletto con l’apporto di una grande orchestra.

 

 

Decisamente vario nelle atmosfere – splendida l’introduzione affidata a Il Regno con il suo incedere maestoso che lo fa sembrare quasi un bolero – trova la sua ispirazione in una visione chiamiamola così ottimista del rapporto tra pianeta e uomo, da sempre al centro delle attenzioni della band. Un disco su cui la Pfm punta molto: «Non sono solo canzoni – sottolineano Di Cioccio & co – sono tatuaggi emotivi che puoi sentire sulla pelle».

 

 

Anche la copertina è a tema, concepita dallo studio Areostella e realizzata dai fratelli Bonora, rappresenta un mondo rigoglioso dove il rispetto della natura è al centro dell’esistenza. La sicumera del gruppo è pari alle capacità dei «poteri forti» invece di distruggere l’ecosistema: «Certo, ci rendiamo conto che intorno a noi le cose non vanno come dovrebbero andare. Il regno racconta proprio questo: viviamo in un regno fantastico in cui non realizziamo appieno quanto sia nostro e quanto sia importante usarlo per la nostra esistenza. Perché è della collettività, non del singolo».

 

 

Un progetto che esce in doppia versione, con testi in inglese e italiano, ma non si tratta di adattamenti: «Infatti, non abbiamo voluto commettere errori fatti in passato. Diciamo che gli argomenti delle canzoni sono compatibili ma sono visti con un’altra ottica. In inglese Il regno diventa We are not an island, che vuol dire ‘noi non siamo un’isola’. Nel senso che in un’isola ti chiudi in te stesso, invece bisogna fare l’opposto. L’abbiamo scritta con Marva Jean Harrow che aveva lavorato con noi ai tempi di Chocolate Kings (1974)». Mayday è un grido di aiuto: «Beh, è molto ironica. Ormai il nostro miglior amico è lo smartphone e il giga è diventata la moneta corrente. In questo mondo c’è vita o solo pubblicità?».

 

 

Nel corso della carriera la Pfm è stata accolta con successo oltremanica e oltreoceano, con album arrivati anche nelle classifiche inglesi e americane e un seguito da culto ancora oggi: «Riteniamo che i primi ’70 dal punto di vista musicale siano paragonabili al Rinascimento. Ascoltavamo Beatles, Rolling Stones, Who, assorbivamo la loro lezione ma non abbiamo copiato nessuno. La musica è stata in quel periodo uno spazio di libertà assoluta, e a noi piaceva sperimentare specialmente dal vivo. Non è un caso che i manager delle band a cui facevamo da supporter ci guardassero con curiosità». E aggiungono: «Suonavano un album di trenta minuti e lo facevamo durare un’ora e mezzo di concerto, la nostra capacità stava nell’improvvisazione. In particolare il nostro stile è piaciuto in America dove non esiste la musica classica, la loro musica di improvvisazione è stata ed è il jazz. Noi grazie al patrimonio di musica classica, unito al progressive e al rock abbiamo fatto un salto di qualità. Ancora oggi ci piace suonare due ore e mezza a concerto, siamo un po’ come il diesel, carburiamo lentamente ma poi non ci fermiamo più».