“Se le strade cambiassero di nome / Un bel giorno: tutt’a un tratto / Ci sarebbe in un caso la ragione / di girare soddisfatto / Se per esempio “Corso Umberto” si chiamasse “Karl Marx Strasse”!”. A dirla tutta la metrica era quel che era e il testo letto così, fa sorridere, ma sentita allora doveva avere un altro effetto. Perché poi, come tutte le canzoni, anche quella andava collocata là dove fu scritta. Questa stava nell’album omonimo uscito nel 1974, l’anno del referendum sul divorzio. A comporla e cantarla era stato Paolo Pietrangeli, figlio d’arte se si può dire (il padre, Antonio, aveva sceneggiato, tra gli altri, alcuni film di Rossellini).

Lui, il musicista, il cantautore e diverse altre cose, se ne è andato ieri e con quel marchio impresso dal quale, volesse o meno, non si era più affrancato. Parlo di un altro testo (e musica), il più famoso, promosso inno di una generazione catturata alla politica nel 1968, a cavallo tra l’occupazione della Cattolica a Milano e un’epica mattinata a Valle Giulia quando – era il primo marzo “sì me lo rammento” – studenti e polizia si erano scontrati senza che quelli disarmati, o quasi, scegliessero la via della fuga (“non siam scappati più”).

Ora, rispetto a Karlmarxstrasse il testo di Contessa è parecchio più imbarazzante (“Voi gente per bene che pace cercate / la pace per far quello che voi volete / ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra / vogliamo vedervi finir sottoterra”). Dunque, vero che in anni vicini i Modena City Ramblers ne hanno inciso una cover, a conferma del carattere simbolico di un testo politically uncorrect, resta che quelle strofe le hanno frequentate un po’ tutti. S’intende tutti coloro che mettevano piede su quel lato del campo. Potevano essere i militanti della Fgci o il popolo dei movimenti, più tardi i figli dell’Autonomia, ma la sapevano pure “indiani metropolitani” e gruppi femministi, comitati e collettivi di base.

Dovessi scomodare la memoria, dirò che assieme e più di quella godeva fama Il vestito di Rossini, ma sono dettagli. Resta che la chitarra e voce di Paolo Pietrangeli, al pari di Ivan Della Mea o Giovanna Marini ebbe l’impatto di una playlist politico-generazionale, il che riesce difficile da spiegare a chi non c’era o è arrivato dopo.

Complicato far capire come quel modo, a tratti scomposto e irresponsabile, di scortare eventi di cronaca e storia con note e strofe scritte apposta perché piazze e cortei vi si potessero identificare, contribuì non poco a rendere quel tempo particolare e in fondo unico.

Cosa fu tutto questo e perché rievocarlo nel salutare un protagonista della vicenda? Forse perché anche la creazione di una “colonna sonora” trasmetteva il senso di una parabola vissuta a quel modo.

Prima, a ridosso e dopo quanto si consumò allora, Pietrangeli è stato anche altro. Regista lui stesso, avrebbe diretto la traduzione su schermo di “Porci con le ali”. Per anni poi spalla invisibile di Maurizio Costanzo. Lo ricordo sul palco del Parioli accennare alcune vecchie ballate. L’impressione fu straniante come se la platea si chiedesse da dove piombasse quello strano soggetto presentato come regista dello show e calato in una performance che di artistico conservava assai poco. Perché forse la dote o il dono di quelle strofe ardite (assai più delle “discese” di Battisti) era proprio nell’appartenere a chi immaginava che il mondo sarebbe dovuto e potuto cambiare e che una ballata intonata da un coro di piazza, per quanto stonato, aveva in sé la bellezza del crederci.

Che oggi la staffetta di una qualche diatriba politico-musicale passi, piuttosto, dalle facezie reciproche di Damiano in tenuta rock e il senatore Pillon col farfallino non è detto rappresenti per forza un passo in avanti. Verso il socialismo? Ma no. Solo verso un pizzico di sincerità e di spirito collettivo.