Chi abbia avuto la ventura, in tempi più favorevoli, di visitare il sito della città di Sohag, in Alto Egitto, si ricorderà delle imponenti mura e della grande chiesa del Monastero Bianco, guidato fra il quarto e il quinto secolo dal sulfureo monaco Scenute, uno dei santi fondatori della chiesa copta. Fecondo scrittore, vigoroso oratore (in copto: ma sapeva bene anche il greco) e polemista formidabile, Scenute sapeva come mettere in riga i suoi monaci e i fedeli. Spesso doveva preoccuparsi di smascherare gli eretici, nonché i cocciuti seguaci della vecchia religione, gli «Elleni» com’erano chiamati: una denominazione che accomunava senza andar troppo per il sottile (e talvolta in modo strumentale) il credo religioso e il possesso della cultura greca. Non erano pochi questi Elleni. Sulla riva opposta del Nilo sorgeva infatti Panopoli, «la città di Pan», che poi era il nome greco del dio egiziano Min. Panopoli era un centro fiorente, con una solida economia basata sulla produzione tessile: da essa provengono molti di quei pezzi di stoffa noti come «tessuti copti» che fanno bella mostra di sé al Museo Copto del Cairo e in tanti musei europei e americani: si tratta di abiti o tendaggi spesso decorati con soggetti iconografici ispirati ai miti classici, e soprattutto a Dioniso, il dio del vino. A Panopoli in effetti la cultura greca era di casa: c’erano ottime scuole in cui si studiavano Omero e i grandi classici e in cui la poesia greca era particolarmente apprezzata. Non a caso, da questa città di provincia provengono i più importanti poeti in lingua greca del IV e V secolo d.C., gli stessi che poi andavano a cercar fortuna ad Alessandria e da qui girovagano per il Mediterraneo.
Fra questi, Nonno è la figura più rappresentativa. Vissuto nella prima metà del V secolo, fu autore di un infinito poema su Dioniso, le Dionisiache (oltre 21.000 versi), vale a dire del più lungo poema epico della letteratura greca, e anche di una fascinosa riscrittura in esametri del vangelo di Giovanni, la Parafrasi. Due opere apparentemente inconciliabili, che fin dal Rinascimento hanno generato teorie sulla conversione del poeta, prima irriducibile pagano e poi convinto cristiano (o anche viceversa). Nonno era popolarissimo ai suoi tempi (lo si vede dalla folta schiera di imitatori, tanto che si parla di una «scuola nonniana» che è durata per un paio di secoli), ma la sua conoscenza divenne sempre più rarefatta nel Medioevo bizantino, tanto che i due manoscritti che conservano le sue opere, entrambi custoditi alla Biblioteca Laurenziana di Firenze, non recano neppure il nome dell’autore. Ci volle un lettore d’eccezione come il Poliziano per rivendicare a Nonno la paternità dei poemi. Poliziano lo considerava «elegante e ingegnosissimo», lo cita spesso nelle sue opere filologiche e lo imita nei suoi carmi. Dopo di lui un selezionato manipolo di entusiasti lettori ne manterrà viva la presenza nella cultura europea, con nomi anche inattesi come Jean Dorat o Nicolas Poussin. La schiera di chi l’ha apprezzato è discreta anche in Italia: da Giovan Battista Marino, che imita spesso le Dionisiache negli Idilli e che le adotta come modello stilistico e strutturale per l’Adone; a Vincenzo Monti che a Nonno occhieggia nella Musogonia (1793); fino al fortunato romanzo di Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, profondamente influenzato dal poeta di Panopoli.
Questo e altro si trova nella ricca introduzione di Francesco Tissoni, che impreziosisce il quarto e ultimo volume della nuova traduzione italiana del poema, contenente i libri 37-48 (Le Dionisiache IV, Adelphi «Biblioteca», pp. LVI-484, euro 34,00). È l’atto conclusivo di un’impresa iniziata più di vent’anni fa, in cui la godibile traduzione di Maria Maletta è arricchita da un copioso apparato esplicativo curato dallo stesso Tissoni. Si tratta della seconda traduzione italiana completa delle Dionisiache (dopo quella della BUR), che si affianca alle traduzioni inglesi, francesi e tedesche che negli ultimi decenni hanno segnato un rinnovato interesse accademico per la poesia di Nonno, accreditato ormai dello statuto di ‘classico’. Nonno chiude la letteratura greca, tredici secoli dopo Omero, componendo un poema epico in 48 libri (cioè la somma di Iliade e Odissea), che racconta la parabola terrena del dio del vino, dalla nascita, alla conquista dell’India e fino all’ascesa finale all’Olimpo. Il tutto in uno stile grandiloquente e barocco, incoercibilmente centrifugo e dominato dal gusto per il dettaglio, la descrizione minuta, l’accumulo da Wunderkammer. Ma Nonno ‘apre’ anche la letteratura bizantina, riscrivendo nel suo stile personalissimo il vangelo di Giovanni (la Parafrasi si può leggere nell’accurata traduzione di Matteo Agnosini, appena uscita per Città Nuova), operando quella sintesi di classicità e cristianesimo che è propria di Bisanzio.
Atene e Gerusalemme, un Cristo che ha tratti dionisiaci e un Dioniso che ha tratti cristiani: Nonno è il poeta delle contraddizioni insanabili e dell’unione degli opposti, pensa il mondo come una disarmonia ordinata, adora raccontare il caos e mettervi ordine con la forza della poesia. Nulla in lui è come ce lo aspetteremmo. Aprite il canto 38, dedicato alla riscrittura del mito di Fetonte, il ribelle figlio del Sole che vuole per forza guidarne il carro e andrà incontro a una brutta fine: pensate di riconoscere la storia immortalata da Ovidio (cui spesso Nonno è stato accostato), ma ben presto sarete portati in un viaggio fra le stelle, rapiti come il giovane Fetonte che rimane abbacinato dalla bellezza dei «pilastri del cosmo infinito» e si distrae dalla guida. E giù decine e decine di versi, che descrivono la confusione del ciclo celeste, con le costellazioni che si scambiano di posto e il sublime caos che ne deriva. Per Nonno la confusione cosmica è la norma, il disordine che rassicura: poteva essere diversamente per un egiziano che ogni anno vedeva il Nilo straripare, la terra cambiarsi in mare e donare la vita? Il mondo è stupore e il fine della poesia è la meraviglia, Nonno lo sapeva bene. C’è posto per tutto nel suo poema cangiante come il dio che celebra. La riscrittura di un tema epico tradizionale, come quello dei giochi funebri, che sorprende però con un quadretto assai gustoso degli hooligans che seguono le corse dei carri; la rielaborazione della materia delle Baccanti di Euripide, con le vicende di Dioniso a Tebe e la fine miserevole di Penteo (ben tre canti gli sono dedicati); battaglie e scontri navali in cui la descrizione dei preparativi conta più dell’azione, e in cui la narrazione si perde in mille rivoli secondari; il Dioniso implacabile amante che perde ogni sicumera di fronte alla bellezza annichilente di Beroe, la ninfa che darà il nome alla città di Beirut (al tempo di Nonno splendida città universitaria). Le membra del «dio che scioglie le membra» (col vino) sono sciolte dal «tormento del desiderio»: innamorato perso, Dioniso ricorre persino ai consigli amorosi di Pan (uno sfigato per eccellenza in materia).
L’eros impetuoso, talora impossibile o talora rubato (Dioniso è anche un violatore di fanciulle ritrose) è una costante di tutto il poema, si direbbe una delle ossessioni dell’autore, che ne fa una chiave di lettura della realtà. La bellezza femminile è sempre descritta con accenti sensuali e molto espliciti: Dioniso è liberazione di questi aspetti, così come è liberazione dagli affanni quotidiani tramite il dono del vino. Dal vino sono ammansiti gli Indiani, che alla fine riconoscono la divinità di Dioniso; dal vino sono storditi i contadini attici che per primi lo assaggiano (l’episodio di Erigone, nel canto 47, uno dei più belli di tutto il poema). Dioniso è un dio spietato, ma anche misericordioso, che regala l’immortalità attraverso l’oblio del dolore. Nonno sapeva bene che questa è l’unica gioia terrena, che è in contraddizione ma che può anche preparare alla gioia celeste (da lui cantata nella Parafrasi). Tutto questo rende la sua poesia affascinante, anche perché essa è un tentativo di dare senso a un mondo che stava cambiando, in cui i vecchi valori erano ripensati alla luce del Cristianesimo. Si trattava di problemi reali: a Panopoli i severi monaci che rampognavano in copto convivevano con raffinati maestri che declamavano Omero e i classici greci; nelle case stavano appesi arazzi con scene mitologiche accanto ad altri con illustrazioni della Natività. Il grande Gibbon guardò con fastidio a queste convivenze e bollò come «decadenza» la tarda antichità e la fine di Roma. Oggi siamo meglio disposti verso questo mondo in trasformazione, che sentiamo affine per tanti aspetti. Le Dionisiache lo raccontano, con la forza di una poesia che vuole ricreare il caos e dargli ordine, o almeno un senso. Il lettore non si pentirà di passare un po’ di tempo in compagnia di questo classico inatteso.