Se si eccettua il Dictionnaire des auteurs de la Pléiade, apparso come fuori collana nel 1960, gli «Album» della Bibliothèque de la Pléiade vengono stampati ogni anno da Gallimard e offerti gratuitamente a chi acquista tre volumi nei giorni destinati alla promozione, nota come «Quinzaine de la Pléiade». Si tratta di pubblicazioni di taglio illustrativo, molto curate sul versante grafico, incentrate perlopiù su autori francesi di primaria importanza (ma non solo: vi figurano Dostoevskij, Lewis Carroll, Faulkner, Oscar Wilde, Borges, Casanova, Shakespeare), in cui si ripercorrono, a cura dei maggiori specialisti, le vicende biografiche degli scrittori di volta in volta prescelti. Qualche titolo riguarda un particolare argomento, come quelli sul Théâtre classique (1970), gli Écrivains de la Révolution (1989), Un siècle NRF (2000), le Mille et une nuits (2005) e il Graal (2009). I volumetti presentano acetato e custodia, oltre a essere accompagnati da un segnalibro in seta. Con il tempo, pur rimanendo inalterato il formato in-16°, l’impianto grafico dei volumi ha subìto alcune sostanziali modifiche: le illustrazioni, oltre al bianco e nero, accolgono anche il colore e le custodie, inizialmente mute, sono ora figurate, avendo rimpiazzato le iniziali sovracoperte. Sulla falsariga di questa prestigiosa iniziativa altri editori hanno cercato in passato di proporre esperienze analoghe, come la Mondadori che, nei «Meridiani», tra gli anni ottanta e novanta, ha fatto uscire diversi album, ma l’impresa si è purtroppo arenata (ricordiamo anche la collana iconografica di Studio Tesi, in cui apparvero profili di Svevo, Kafka, Proust, Mann e altri).
Il primo numero stampato negli «Album» della Pléiade, ricercatissimo dai bibliofili, fu quello del 1962 su Balzac, curato da Jean A. Ducourneau, cui seguirono negli anni le pubblicazioni relative a Zola, Hugo, Proust, Stendhal, Rimbaud. Dei sessanta titoli proposti alcuni meritano una menzione particolare, come quelli su Baudelaire, Apollinaire, Céline, Camus, Gide. È del 1972 l’album dedicato a Flaubert, curato da Jean Bruneau e Jean A. Ducourneau; in occasione del secondo centenario della nascita, avvenuta nel 1821, viene ora proposto un nuovo Album Gustave Flaubert (pp. 256, s.i.p.), affidato a Yvan Leclerc che ripercorre la vicenda biografica dell’«eremita di Croisset» con l’ausilio di un differente apparato iconografico.
Dopo la pubblicazione delle Œuvres, apparse, a cura di Albert Thibaudet e René Dumesnil, nella Pléiade tra il 1951 e il 1952, si decise di intraprendere un progetto più articolato riguardante l’opera omnia di Flaubert. Sono così usciti, in tempi relativamente più recenti, i cinque volumi delle Œuvres complètes, a cura di vari studiosi, che vanno ad affiancare i sei tomi, compreso uno di indici, della monumentale Correspondance. Migliaia e migliaia di pagine che contrassegnano l’opera di un perfezionista maniacale, sempre alla ricerca del mot juste. Sin da questi dati traspare l’abnegazione con la quale l’autore francese si è rapportato alla scrittura, cercando di annullare la sua stessa personalità in funzione dell’atto creativo, considerato l’unico elemento in grado di debellare quella che Dumesnil ha definito «névrose neurasténique et hystérique» (secondo la maggior parte degli studiosi Flaubert avrebbe sofferto di epilessia, manifestatasi a partire dal 1844). Lo stesso Leclerc, in questo nuovo album, accenna al rifiuto, da parte di Flaubert, di rendere pubbliche la propria immagine e la propria biografia, essendo convinto che lo scrittore debba necessariamente scomparire di fronte all’opera intrapresa. Solo quest’ultima dovrà parlare per lui, la parola scritta dovrà ottemperare a rendere pubblica la sua medesima esistenza. L’autore non sussiste che in funzione della sua parola, diviene esso stesso parola. I suoi giorni si cadenzano – e si giustificano – soltanto attraverso un castello di parole che ricorda, nonostante un ascetismo di ascendenza laica, il Castillo interior di Teresa d’Avila.
Si riporta la contrarietà con la quale Flaubert accolse la pubblicazione, sulla rivista «La Vie moderne», delle illustrazioni che accompagnavano il testo teatrale Le Château des cœurs, definite «enfantines» e «ineptes». Gli atti della féerie, redatta in collaborazione con Louis Bouilhet e Charles d’Osmoy, usciranno scaglionati nel 1880, poco prima della scomparsa dello scrittore, avvenuta l’8 maggio di quello stesso anno. A Émile Bergerat, direttore della rivista, l’autore aveva proibito di pubblicare il suo ritratto: «Non voglio essere ritratto. La mia fisionomia non è in vendita. Sono sempre stato inflessibile a tal proposito: nessun ritratto, a nessun costo. Ho le mie idee al riguardo e voglio essere il solo uomo del XIX secolo di cui i posteri possano affermare: non si è mai fatto raffigurare, sorridendo a un fotografo, con la mano nel gilet e un fiore all’occhiello!».
È significativo che un ritratto di Flaubert apparve solo dopo la sua morte, sulla copertina del numero del 15 maggio 1880 dello stesso periodico: si tratta di un disegno realizzato da Ernest de Liphart, qui riprodotto a p. 6, in cui si vede il busto dello scrittore con il volto orientato di tre quarti a sinistra, baffoni spioventi da barbaro, fronte stempiata e capelli ondulati sulla nuca. Lo sguardo bovino è quello tipico che caratterizza anche gli altri ritratti conosciuti, a cominciare da quelli fotografici effettuati da Nadar e Carjat: il più celebre, realizzato da quest’ultimo presumibilmente nel 1867, lo raffigura con mano sinistra in tasca ed espressione disinvolta che evita accuratamente l’obiettivo. Ci sono, in questa sorta di oftalmofobia, nonché nell’atteggiamento denigratorio nei confronti della fotografia, parecchie analogie con la diffidenza manifestata da Baudelaire che tuttavia, nei suoi ritratti, cerca di dissimulare un atteggiamento ambiguo, in cui confluiscono elementi parodici e, al contempo, narcisistici. Non aveva d’altronde fatto il panegirico di Lord Brummel e del dandismo? In Flaubert tuttavia vi è qualcosa di più sfumato, di più sfuggente, una sorta di intransigenza che si manifesta attraverso lo sguardo che, in modo più o meno disincantato, scansa l’obiettivo, a cui preferisce la fissità di una parete o il bric-à-brac che domina un gabinetto fotografico dell’epoca.
La prima fotografia conosciuta è quella che Maxime Du Camp gli scatta (p. 101) al Cairo, nel giardino situato sullo sfondo dell’hôtel du Nil: un piccolo essere barbuto, un ectoplasma vestito di bianco, schiacciato dalla vegetazione e dalla monumentalità degli edifici all’intorno, messo lì proprio per evidenziare la loro imponenza di fronte al suo aspetto quasi irreale. Ha così l’opportunità, nel momento stesso in cui appare, di celare la propria identità, come specifica nella lettera a Louise Colet del 14 agosto 1853: «Non consentirei mai a farmi fare un ritratto fotografico. Max l’aveva fatto, ma ero in costume nubiano, in piedi, e visto da molto lontano, in un giardino». L’immagine fu pubblicata nel 1852 dall’amico, che con lui intraprese il viaggio in Oriente, nel volume intitolato Égypte, Nubie, Palestine et Syrie, contenente 125 clichés di Du Camp. Le note di viaggio di Flaubert, datate 9 dicembre 1849, registrano la posa per una seconda istantanea, realizzata «sopra la piramide che si trova nell’angolo sud-est rispetto a quella grande» ma di tale documento si è persa ogni traccia.
Si passano poi in rassegna gli eventi più significativi della vita del narratore, con particolare attenzione per i suoi libri: Madame Bovary, sottoposta a un celebre processo per oltraggio alla morale, uscì nel 1857 in due volumi da Michel Lévy che stampò anche Salammbô nel 1862 (qui rappresentato in uno splendido esemplare rilegato da Victor Prouve trent’anni più tardi) e i due tomi di L’Éducation sentimentale nel 1869-’70, mentre Charpentier pubblicò sia La tentation de Saint Antoine (’74) sia i Trois contes (’77). Postumo uscirà nel 1881 Bouvard et Pécuchet per i tipi di Lemerre, testo ammiratissimo da Joyce.
Ma il vero Flaubert non va ricercato nei ritratti fotografici, bensì in qualche caricatura dell’epoca, come quella di Achille Lemot, apparsa in «La Parodie» del 5 dicembre 1869, che lo ritrae mentre con una mano impugna una lente e con l’altra un bisturi al quale è infilzato un cuore femminile sanguinante, chiaro riferimento alla meticolosità con cui l’autore esamina le vicende sentimentali di Madame Bovary. D’altronde non scrisse Sainte-Beuve che «Flaubert maneggia la penna come altri il bisturi»?