Il comportamento elettorale dei cittadini calabresi condensa, esasperandole, le frustrazioni più che decennali degli elettori italiani. Logoramento della fiducia politica, strozzatura nella comunicazione tra elettori ed eletti, per il sistema maggioritario, e soprattutto per l’evasione della domanda sociale.

Accade così che nelle elezioni amministrative, quasi ad ogni turno, gli elettori calabresi premino con scontata alternanza ora il centro-destra, ora il centro sinistra, in una stanca ritualità della cui inefficacia e inutilità sono tutti convinti. Ovviamente anche quella metà degli aventi diritto che neppure si reca alle urne. In questa ultima tornata tuttavia si è verificata un’anomalia particolarmente vistosa:il tracollo del Movimento 5S che dal 43,9% dei consensi ricevuti alle elezioni politiche del 2018 è precipitato al 7,35 di oggi.

Un risultato che ripete un vecchio comportamento (la punizione per la delusione subita), ma che conferma anche la demolizione di uno stereotipo pernicioso: l’immagine di una regione totalitariamente controllata dalla ‘ndrangheta. Il voto di massa ai 5S nel 2018 e il precipitoso abbandono del 2020, mostrano come il comportamento elettorale dei calabresi ubbidisca largamente a considerazioni di ordine politico, e soprattutto politico-clientelare, ma non è controllato dalla criminalità come vorrebbe la solita leggenda nera.

Quel che si svolge in Calabria è un circolo vizioso tra una società civile frantumata e scarsamente indipendente sul piano sociale – per via della ristretta base produttiva e le rare opportunità di lavoro – che avanza ai poteri pubblici domande di piccolo cabotaggio, e un ceto politico che risponde con una politica di breve respiro, di piccoli traffici, gestione personale del potere, senza visione e progetto.

Le elezioni potrebbero costituire delle buone occasioni per riflessioni meno superficiali, ma la scarsa copertura mediatica, soprattutto televisiva, non aiuta a mostrare complessità, contraddittorietà, ricchezza di una regione schiacciata su vecchi stereotipi che impediscono agli stessi calabresi di riconoscersi nelle loro reali possibilità.

Bisognerebbe chiedersi quali sono le sue potenzialità, quale può essere, non il suo “sviluppo sostenibile” (vecchie parole di un capitalismo senza più egemonia) ma il percorso per una relativa indipendenza economico-sociale, per la piena occupazione, l’affermazione di elevati standard culturali e di vivere civile.

La Regione non ha una brillante tradizione imprenditoriale in campo industriale. Quindi da lì ci si può aspettare poco, così come poco ci si può attendere da investimenti esterni. Viceversa una nuova agricoltura fondata sulla biodiversità delle specie agricole avrebbe possibilità straordinarie. E la biodiversità, non dimentichiamolo, è il patrimonio strategico che ci può consentire in futuro di fronteggiare i mutamenti indotti dal riscaldamento globale. Un’industria alimentare in grado di sfruttare tale patrimonio è ancora molto limitata e ristretta. Così come al di sotto delle possibilità di investimento economico è l’allevamento – impressionante è l’ampiezza delle terre spopolate – e l’economia dei boschi. Si tratta di ambiti di economia locale letteralmente in abbandono. E riflessione non dissimile si può fare per le sue bellezze naturali, il suo patrimonio storico artistico oggetto di un turismo scadente e lasciato a sé stesso.

Ma la Calabria, lo si dimentica colpevolmente, produce cultura, da almeno mezzo secolo per le altre regioni italiane, privandosene sistematicamente. Oggi esistono tre poli universitari nei capoluoghi, che continuano a formare intellettuali e professionisti destinati all’esodo. Premesso che l’assenza di intervento pubblico condanna alla regressione i territori privi di dinamismi endogeni, la Calabria potrebbe prendere slancio da investimenti statali e regionali esattamente nell’ambito della formazione e della ricerca. Occorre dunque tornare a investire nelle Università, ma è necessario anche immaginare la nascita di istituzioni collaterali.

Sarebbe necessario un Istituto di studi dell’ambiente e del territorio mediterraneo, per fare della Regione un centro d’avanguardia per l’analisi non solo di un habitat fra i più ricchi del pianeta, ma per elaborare strategie di risposta al riscaldamento climatico. Dalla geologia alla botanica, dalla climatologia all’agronomia secondo una visione olistica della natura. L’Istituto potrebbe richiamare allievi da una vasta area, offrire possibilità di ritorni a tante nostre intelligenze oggi al lavoro altrove.

La stessa Regione potrebbe fare la sua parte. Penso a un cospicuo numero di master retribuiti agli studenti che in due anni dovrebbero svolgere ricerche a favore dei comuni: per censire le terre incolte, il patrimonio abitativo abbandonato, studiare e restaurare il paesaggio archeologico e naturalistico, monitorare il corso dei fiumi, lavorare sull’evasione scolastica, diffondere le biblioteche di quartiere, sistemare gli archivi, ecc. Due anni di lavoro utile, per non fuggire e avviare, dopo la laurea, progetti a cui i fondi l’Ue potrebbero dare continuità.

Mentre una nuova politica, che punti su giovani emergenti e fuori dalle vecchie logiche, dovrebbe iniziare con un’opera di volontariato, andando a raccogliere le domande dei quartieri popolari, delle borgate, delle periferie per costruire programmi di lotta e di mobilitazione, rinnovando così un ceto politico che in Calabria è oggi forse il primo dei problemi.