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Non sono le idee che mancano, alla sinistra manca il partito nuovo

Non sono le idee che mancano, alla sinistra manca il partito nuovoIllustrazione – Ludovica Valori

Sinistra Le idee non mancano: quel che manca è il soggetto politico organizzato – un partito - che traduca queste idee in cultura politica diffusa, e poi in “senso comune” capace di conquistare spazio ed egemonia nella rete di discorsi quotidiani che plasmano la sfera pubblica

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 7 gennaio 2021

Gianni Cuperlo, nel suo intervento su queste pagine, evoca un lontano evento di un quarto di secolo fa, quando il Pds convocò un incontro, in quel di Pontignano (Siena), con un centinaio di personalità a discutere “sul futuro della sinistra”, e invita a recuperare quanto meno il “metodo” di allora.

Dubito che la proposta, in sé, possa risultare attraente. O meglio, si può essere d’accordo, ma a patto di chiarire bene quale sia l’ordine del giorno di un siffatto consesso: l’ennesima discussione “a tutto campo” sulle idee della sinistra del XXI secolo? Voglio essere un po’ provocatorio: abbiamo a disposizione oramai intere librerie e centinaia di testi in cui molti autori, gruppi e associazioni, si sono efficacemente esercitati nell’analisi critica del nostro presente, e in cui si propongono programmi e linee di azione per una sinistra che voglia ricostruirsi.

Le idee non mancano: quel che manca è il soggetto politico organizzato – un partito – che traduca queste idee in cultura politica diffusa, e poi in “senso comune” capace di conquistare spazio ed egemonia nella rete di discorsi quotidiani che plasmano la sfera pubblica. Un soggetto politico della sinistra che discuta, organizzi e selezioni queste idee e le faccia divenire tratto caratterizzante di un coerente profilo ideale (o anche “ideologico”: non bisogna aver paura di questa parola) e di una coerente elaborazione programmatica. Un soggetto, naturalmente, che sia esso stesso un luogo plurale di confronto e di elaborazione politica e intellettuale.

Una prospettiva irrealistica? Può darsi, ma se la si ritiene tale, non si rimedia certo con una frustrante pratica convegnistica, anzi. Alla lunga si peggiorano le cose, perché se dopo tanti discorsi seri e interessanti non succede nulla, alla fine anche i convegni saranno disertati. E a chi ritiene oramai impossibile parlare di un “partito”, spetta l’onere di avanzare qualche soluzione diversa.

E allora, quel centinaio di personalità da riconvocare da qualche parte, (e non solo loro, ovviamente), dovrebbero rispondere ad una precisa domanda: davvero è impossibile la costruzione/ricostruzione di un decente partito della sinistra? E se no, come pensate si possa colmare quel deficit di rappresentanza di cui giustamente parla Cuperlo? Cosa siete disposti a fare, personalmente, per una siffatta prospettiva? Quale percorso è possibile individuare?

Naturalmente, i partiti non si inventano dal nulla: al contrario, sono sempre “imprese” che nascono “dall’alto”, quando un gruppo dirigente (o meglio, un gruppo che aspira e ambisce a definirsi come tale) sa cogliere una giuntura critica della storia, e sa interpretare – dando ad essa voce e forza organizzata – una domanda di rappresentanza politica presente nella società, nei suoi movimenti di lotta e di opinione, in quella “cittadinanza partecipata” di cui hanno scritto qui Ardeni e Bonaga, e poi Bersani.

Da questo punto di vista, come sono messe le cose, oggi, in Italia? Male, naturalmente. Il Pd è un partito che appare paralizzato, retto da un regime anarchico-feudal-plebiscitario che scoraggia radicalmente l’ingresso di nuove forze. Poi, a sinistra del Pd, ci sono oramai moltissimi homeless della politica, che si occupano meritoriamente di molte cose, ma che talvolta sembrano essi stessi preda della deriva anti-politica di questi decenni, rifuggendo come la peste dalla stessa idea che il loro agire possa essere etichettato come “partitico”.

E, infine, tra le residue forze organizzate, si rimane nel limbo: c’è chi pensa non vi siano reali alternative al rientro nel Pd, ma spera che si creino le condizioni minime perché l’operazione abbia un senso politico collettivo, e non sia una scelta individuale; e poi c’è chi si arrovella intorno ad una qualche altra formula. E qui la parola chiave sembra essere la “rete”.

Ad esempio, nel documento congressuale di Sinistra Italiana, si parla della “costruzione di una rete degli ecologisti, della sinistra e delle esperienze civiche”, di un “soggetto politico più largo e coeso”, avvertendo tuttavia di voler “evitare qualsiasi forzatura organizzativa”, pur riconoscendo che “non possiamo permetterci di affrontare” i compiti dell’oggi restando “immersi in un’eterna fase pre-costituente”.

Confesso la mia insofferenza, ogni qualvolta qualcuno evoca il pericolo delle “scorciatoie organizzative”: la realtà è che, a furia di scansare il tema spinoso della forma-partito, la prospettiva della “rete” (o altre formule simili, quale che sia il loro senso e la portata effettiva) risulta alla fine del tutto complementare, e apre la via, ad una visione in cui è poi il Pd l’unico beneficiario e l’unico riferimento elettorale (come già accaduto peraltro in buona misura nelle elezioni emiliane e toscane): da una parte, cioè, il benefico proliferare di realtà associative, di movimenti, di iniziative civiche; dall’altra, un partito-collettore a cui dare il proprio voto, magari senza molto entusiasmo.

Nulla di male, beninteso, purché lo si dica. Uno scenario un po’ “americano”, insomma; salvo il fatto che il partito democratico americano è molto meglio di quello italiano: un partito-costellazione, quello Usa, che permette una larga autonomia di gruppi e di personalità, che ha regole precise per la competizione interna (primarie serie, ad esempio, per tutte le candidature alla cariche pubbliche, con la registrazione preventiva degli elettori).

E un partito – particolare non irrilevante – che sa esprimere una forte capacità di mobilitazione e di organizzazione, come ben mostra ad esempio la splendida vittoria in Georgia.

È uno scenario che potrebbe essere seriamente preso in considerazione, a patto che il Pd, e tutti gli altri, si rimettano davvero in discussione, per dare vita a un partito che, come scrive Bersani, “promuova uno spazio aperto e plurale e lo delimiti affermando valori e discriminanti”. Bene, da dove si comincia? E chi fa il primo passo

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