I risvolti politici del processo Mediaset, che rischia di far crollare il governo Letta, se da una parte stimolano un dibattito sul reato in questione – la frode fiscale – , dall’altro rischiano di concentrarsi sul piano meramente penale del fenomeno; vale a dire di girare sempre attorno al caso singolo, senza abbracciare la generalità del problema. Che come tale non è solo una questione morale o di legalità ma è legato alla sostanza del sistema economico-finanziario attuale.
La sentenza Mediaset nello specifico riguarda una attività prolungata e sistematica per istituire un’architettura di società finanziarie, definita «un meccanismo fraudolento di evasione fiscale sistematicamente e scientificamente attuato». Un’opera complessa che richiede competenze sofisticate – non è la questione dello scontrino del bar o del nero della microimpresa insomma. E che non riguarda una singola azienda particolarmente criminosa, ma è endemica nel mondo delle grandi imprese. Che volentieri si macchiano anche dell’elusione, la pratica di aggirare le normative fiscali, sfruttando i «buchi neri» della legislazione; una modalità particolarmente alla moda è ricorrere a giurisdizioni fiscali in cui la pressione tributaria è quasi nulla: i famosi paradisi fiscali offshore (letteralmente «lontani dalla costa»…). Cittadini abbienti e grandi aziende, principali attori in questione, riescono così a sfuggire ai vincoli degli Stati, come schegge di libero mercato delocalizzato gioiosamente sollevate dagli oneri sociali.
Volendo quantificare il fenomeno, diverse fonti autorevoli restituiscono un quadro della situazione… dantesco. Nato al Forum Sociale Europeo del 2002 a Firenze, il Tax Justice Network sforna raggelanti rapporti ripresi dal Financial Times e dal Sole 24-Ore; il suo ultimo report di luglio 2012 afferma che attraverso le circa 80 giurisdizioni offshore sono transitati qualcosa come 21.000-32.000 miliardi di dollari senza pagare tasse – contando solo la ricchezza finanziaria, cioè non comprendendo beni come yacht, beni immobili e simili che farebbero schizzare le cifre ancora più in alto. E responsabili non sono solo i paradisi fiscali; esiste un intero settore, una industria dell’evasione fiscale che fornisce know-how, servizi, assistenza per fare da tramite fra i facoltosi clienti ed le giurisdizioni offshore, la cui punta di diamante sono 500 banche private, hedge fund, studi legali, compagnie assicurative e finanziarie. Fra queste, naturalmente, le maggiori banche responsabili della crisi del 2007-08, spesso salvate coi soldi dei cittadini.
A monte del problema stanno i processi di liberalizzazione (dei capitali, dei servizi finanziari, delle banche) che hanno tagliato le unghie alle autorità regolative nazionali; ma non solo. Il rapporto della Commissione del Senato francese (licenziato a giugno 2012) cita anche le varie forme di opacità (segreti bancari, garanzie di anonimato) nel sistema, ed osserva che la spinta alla appetibilità del territorio ha portato ad una “costrizione di competitività fiscale” incorporata nel diritto nazionale, che fornisce robuste occasioni di evasione. Il più sintetico report del Comitato per gli Affari economici della Camera Alta britannica (luglio 2013) si mostra da parte sua allarmato dal fatto che “il sistema internazionale offre alle multinazionali opportunità per spostare i propri profitti in modo da ridurre i loro oneri in UK. Questo danneggia l’economia e mina la fiducia nel sistema tributario […]ma le aziende hanno la responsabilità di dover pagare le loro tasse”. Saggezza britannica.